Sessantadue pagine, ognuna con una diversa composizione di lettere dell’alfabeto: è la partitura di Sixty-two Mesostics Re Merce Cunningham che il compositore e sperimentatore John Cage (1912-1992) realizzò nel 1971.
I brani della partitura si concretizzano in parole intrecciate tra di loro orizzontalmente e verticalmente e queste, non solo danno vita al mesostico (ossia a un componimento nel quale le iniziali delle parole a metà verso, lette in successione dall’alto al basso, formano un vocabolo), ma, per mezzo della diversa grandezza delle lettere e della loro distribuzione nello spazio del foglio, determinano nella recitazione vocale un diverso fluire di suoni e silenzi.
Il risultato, come dimostra la lettura che nel 1974 ne fece Demetrio Stratos (1945-1979), vocalist e ricercatore sulla voce, è un viaggio nei territori di un linguaggio dove il senso viene disarticolato e nel contempo specificato dal suono.
La ricerca di Stratos, in questo caso al pari di quella caegiana, era indirizzata al superamento di quella che chiamava «ipertrofia vocale occidentale» che, secondo lui, era all’origine dell’isolamento della vocalità nella gabbia di determinate strutture linguistiche e di «consuetudini espressive privilegiate e istituzionalizzate dalla cultura delle classi dominanti»
Quello del liberarsi dalla “gabbia delle parole” era un proposito già espresso nel secondo dopoguerra da Antonin Artaud (1896-1948) il quale, per mezzo della potenza della parola che si faceva suono, cercava nella sua poesia la dimensione primordiale della parola, ossia «l’impulso psichico segreto che è la Parola prima delle parole»..
Come s’intuisce anche dalla interpretazione che sempre Demetrio Stratos fece dell’opera radiofonica di Artaud intitolata Per farla finita con il giudizio di dio (1948), per il poeta marsigliese la parola doveva «agire dentro il corpo», essa stessa doveva essere il frutto del lavoro del corpo, della bocca e del respiro.
In ogni caso, la lingua deve essere sventrata e stravolta, crocifissa e distrutta: insieme ad Artaud lo sostenne anche Carmelo Bene (1937-2002) tanto da fare del testo recitato uno spartito con il quale la sua voce-strumento passava dal bisbiglio all’urlo al sussurro al latrato alla lallazione alla declamazione in un continuum senza soluzione. Come disse il filosofo Gilles Deleuze (1925-1995) a proposito del teatro di Bene: «Non è più questo o quel personaggio che parla, ma il suono stesso diventa personaggio… ».
Com’era prevedibile, queste ricerche hanno trovato enormi possibilità di sviluppo negli ultimi decenni grazie all’uso della tecnologia e della elaborazione informatica della voce. Il poeta e performer giapponese Tomomi Adachi (1972), ad esempio, ha realizzato una strumentazione che applica sul proprio corpo e che è capace di elaborare voce, suoni e rumori in tempo reale. Ricerche analoghe coinvolgono oggi molti artisti, giovani e meno giovani tra cui Giovanni Fontana in Italia, Violaine Lochu in Francia, Katalin Ladik in Ungheria, Joerg Oiringer in Austria. Insomma, un panorama molto ricco.
E pensare che l’origine indiscutibile di queste ricerche sul “suono del testo” ha una data molto lontana: 1914, l’anno in cui Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) pubblicò Zang Tumb Tumb, il poemetto che rievocava l’assedio di Adrianopoli durante la prima guerra balcanica. Nella poesia la punteggiatura è abolita, non ci sono periodi di senso compiuto, vengono utilizzati caratteri di diverse dimensioni che alternano grafemi in grassetto, in corsivo, in maiuscolo e soprattutto c’è un grande impiego di termini onomatopeici che evocano rumori, boati, sibili di proiettili con un inaudito, almeno sino ad allora, effetto sinestetico.
Difficile sostenere che la costruzione “tecnica” dei Sixty-two Mesostics Re Merce Cunningham di John Cage non sia stata influenzata dal delirio visivo e sonoro della poesia di Marinetti.
E che dire di David Byrne, della band newyorkese Talking Heads, e Brian Eno? Nel 1979 composero il brano I Zimbra, apparso sull’album Fear of Music degli stessi Talking Heads, la cui origine, come loro stessi dichiararono, è Gadij Beri Bimba, del tedesco Hugo Ball (1886-1927), una poesia fonetica nientemeno che del 1916 dove la relazione tra parola e significato viene inglobata in una sonorità capace di trascendere il contenuto semantico stesso. Scrittore, poeta e regista teatrale, Ball fu uno degli esponenti di primissimo piano del movimento Dada, la corrente letteraria e artistica (o meglio, antiartistica come sostenevano i promotori del movimento stesso) che si sviluppò in primo luogo a Zurigo nel famoso Cabaret Voltaire tra il 1916 e il 1922. Nato come espressione del rifiuto di quella società borghese e nazionalista che aveva condotto al primo conflitto mondiale, Dada si riprometteva di distruggere le convenzioni, anche quelle artistiche, per mezzo dello scandalo e dell’irrisione. I versi di Ball (volutamente senza senso per rimarcare l’assenza di senso espressa dalla società) spezzavano con irrisione iconoclasta la mitopoietica dell’arte: non c’è arte perché tutto può essere arte, anche il gorgoglio gutturale trasformato in sonorità poetica. Semi che non hanno mai smesso di germogliare.
Che anche Adriano Celentano con la sua Prisencolinensinainciusol, la canzone non-sense e in lingua inventata che presentò nel 1972, avesse voluto fare una provocazione Dada? Bisognerebbe approfondire…
Versi diversi: la poesia sonora e visiva
RSI Cultura 16.02.1985, 12:36