Cinema

Il robot selvaggio

Un cartone che ci dice che la gentilezza è necessaria per la sopravvivenza della specie

  • 24 ottobre, 11:40
  • 24 ottobre, 12:01
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Roz e Beccolustro in una scena di "Il robot selvaggio"

  • DreamWorks Animation
Di: Valentina Mira 

Si chiama Il robot selvaggio, ma lei è una robot. Il femminile si perde, “lost in translation”, ma è centrale in questo bellissimo cartone, da poco in sala, adatto a persone di ogni età, tratto dal romanzo “Il robot selvatico” di Peter Brown (in italiano uscito per Salani nel 2016). In realtà il fatto che la robot (Rose) sia una femmina è un plus rispetto alla sua estraneità nell’isola dove finisce a seguito di un incidente: riecheggia Il mostruoso femminile di Sady Doyle. In effetti è così che viene chiamata all’inizio dagli altri abitanti dell’isola, tutti animali, nessun essere umano: il mostro.

Non solo per descriverne l’estraneità è importante il fatto che Rose sia femmina, ma soprattutto per uno dei temi centrali, la maternità. Programmata per risolvere problemi e non per fare la mamma, la robot si trova a covare un uovo. È qui che inizia la parabola narrativa che ricorda da vicino La gabbianella e il gatto, lo splendido cartone tratto dall’altrettanto bel libro di Sepúlveda. Un pulcino che pensa di essere un robot, una robot che deve insegnargli a volare. Non è una maternità stereotipata né idealizzata quella proposta dal cartone, è anzi piena di autoironia; le madri presenti in sala sghignazzano quando mamma-opossum si sorprende con dispiacere che il settimo figlio sia ancora vivo, perché sette cuccioli attaccati alla pelliccia ventiquattr’ore su ventiquattro sono difficili da gestire, e allora si può ridere dell’assenza di istinto materno, che com’è noto è un mito. Essere madri è soprattutto fare le madri, è una serie di azioni e di scelte e di errori: tutt’altro che puro istinto.

Il conflitto - uno dei conflitti - presente nel Robot selvaggio è il rapporto tra uomo e natura, confermando il trend tracciato proprio in questi giorni da Manami Tamaoki dell’agenzia letteraria Tuttle-Mori, che in occasione della fiera internazionale di Francoforte ha parlato di quali siano gli argomenti che “vanno di più” nello storytelling. Vale per i libri ma anche per i film.

Tra le influenze c’è anche Il brutto anatroccolo, nell’inevitabile momento di epifania in cui il pulcino diventa grande, e scopre che esistono i suoi simili. Simili che, proprio come nella fiaba di Andersen, all’inizio bistrattano il nostro.

Tornando alle madri, a un certo punto nel cartone ci si domanda: «Che stiamo facendo?», e la risposta è: «Non lo so, non lo so. Non faccio che improvvisare e invece non dovrei, perché lui dipende da me». Sembra una critica alla maternità tradizionale, alle madri che la società vorrebbe come robot, ma non lo sono. Anche una robot va avanti senza libretto di istruzioni se le tocca in carico un pulcino.

Se ne La gabbianella e il gatto il film finiva col volo, qui il volo è a metà film; il resto ha a che fare col ritorno. Bellissima e commovente la scena del primo decollo del piccoletto, anche grazie alla canzone che la accompagna e che recita «le ali che hai non sono fatte per camminare», un verso che ricorda da vicino la splendida poesia di Baudelaire L’albatro («Ses ailes de géant l’empêchent de marcher», «Le sue ali di gigante gli impediscono di camminare»). Siamo lontani dal «vola solo chi osa farlo» di Sepulveda, ma solo perché qui il tema non è il coraggio, è la vita. E nella vita talvolta è proprio così:

«Pronto?»
«Devo esserlo per forza».
Accettazione, e non coraggio superomistico.

Un’unica critica è possibile a questo cartone poetico e ben costruito: se la metafora del robot riguarda la razionalità e il gelo che si sciolgono con l’amore, come sembra, forse era giusto ragionare di paternità anziché di maternità. Perché il tema delle emozioni non processate e non comunicate ha più a che fare con gli uomini, ma affrontarlo in un cartone presupponeva un supporto di realtà che l’autocoscienza maschile al momento non permette. Ci sono davvero troppi pochi studi, collettivi, movimenti, assemblee, che affrontano la mascolinità tossica in prima persona, e il tutto sembra delegato al femminismo pur non essendo un suo compito. Siamo, quindi, di nuovo qui a ragionare di madri.

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C’è un altro tema, in questo caso estremamente attuale: il clima. Nell’ultima parte del film arriva un inverno inconsueto, così rigido che gli animali dell’isola rischiano di morire tutti. È a questo punto che devono cambiare atteggiamento, proprio con la finalità di sopravvivere: non più la legge del più forte, ma diventare più forti insieme. In questo la morale della robot Rose diventa salvifica. L’idea che viene proposta esplicitamente ai più piccoli e ai meno piccoli è che la gentilezza serva a sopravvivere. A ben vedere, è un seme rivoluzionario. Soprattutto se si pensa che il pericolo è l’estinzione, la risposta - che sembra “di cuore” - è in realtà molto razionale. A prova di robot.

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Un’ultima nota di colore è quella che sembra a tutti gli effetti una frecciatina a Elon Musk, quando viene detto en passant che «mettere numeri nel nome di qualcuno è un’offesa» (il magnate ha chiamato suo figlio X Æ A-12.).

In definitiva, Il robot selvaggio è: un cartone che fa correre il tempo, che riecheggia il meglio della letteratura e della filmografia sul volo, sul conflitto uomo-natura (il conflitto è riassunto nel titolo, “robot” in contrapposizione a “selvaggio”), che smonta qualche stereotipo sulla maternità, che prende in giro i potenti e che propone una morale nuova, gentile, necessaria.

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