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Toto Cutugno, 80 anni sbagliati e perfetti

Il cantante simbolo globale del nazional-popolare italiano ci lascia a 80 anni, di cui 60 passati sui palchi di mezzo mondo. Non è il momento di criticarlo, né di rivalutarlo: solo di riconoscere il suo status di icona

  • 7 luglio 2023, 10:51
  • 14 settembre 2023, 09:02
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Di: Michele R. Serra 

C’è una pagina Facebook che si chiama La stessa foto di Toto Cutugno ogni giorno. E fa esattamente questo: postare sempre la stessa immagine, un ritratto del cantante del 1980 preso direttamente dalla pagina Wikipedia a lui dedicata. Ogni giorno. Da quasi nove anni. Un chiaro esempio di performance artistica situazionista, seguita da poco meno di ottantamila persone, e capace di attirare quotidianamente contatti e commenti. Viene da chiedersi se sarebbe stato lo stesso, con l’immagine di un altro cantante. Già, perché l’icona-Toto Cutugno è diversa da ogni altra, nel mondo della musica italiana: già storicizzata come monumento pop, e allo stesso tempo protagonista di una memoria che divide. Toto Cutugno che piace a tutti, eppure non piace a nessuno.

Talento pop o talento trash?

In questi ottant’anni infatti, l’uomo nato Salvatore Cutugno il 7 luglio del 1943 è stato spesso identificato come il cantore del famigerato nazional-popolare italiano nella sua accezione più negativa, quando non direttamente come portabandiera del trash. Toto Cutugno con i capelli troppo laccati, Toto Cutugno permaloso che litiga con i giornalisti, Toto Cutugno che sta antipatico agli altri cantanti, Toto Cutugno che arriva sempre secondo a Sanremo (che poi a ben vedere, vinse a mani basse alla sua prima apparizione da solista)... E certo, legare il proprio nome a doppio filo con quello del festival della canzone italiana (15 partecipazioni, un club esclusivo di cui fanno parte solo altri 4 artisti) magari non lo ha aiutato a farsi amare dalla critica e dalla stampa, che generalmente preferiscono chi si muove fuori dal mainstream. Tuttavia, è impossibile negare che Cutugno sia stato un musicista di raro talento – il pubblico era abituato a pensarlo al pianoforte, ma fu notoriamente un polistrumentista capace di dire la sua con sassofono, chitarra e persino batteria – e un autore inaspettatamente colto, non solo nelle ispirazioni (la passione giovanile per il jazz), ma anche nella produzione per altri: basti pensare a Il tempo se ne va per Adriano Celentano o Volevo amarti un po’ per Ornella Vanoni.

A riascoltare oggi le canzoni del suo periodo d'oro è inevitabile pensare a quanto fossero quintessenzialmente novecentesche, con testi che nella maggior parte dei casi oggi sarebbero considerati sessisti (spesso, a dire il vero, non erano opera di Cutugno, ma di parolieri come Popi Minellomo), e musica che rifletteva l’ossessione per le grandi melodie e gli arrangiamenti ridondanti, che oggi fa sembrare quei brani intrappolati nell’ambra degli anni Ottanta. Non che ci sia qualcosa di male, in questo: bisogna ammettere che anche quella è stata un’epoca d’oro per la canzone italiana, e Toto Cutugno ne è stato protagonista. Di più: la sua produzione era tipicamente italiana, figlie di una tradizione nazionale della vicina penisola che guardava più alla storia di casa che alla nuova, eccitante musica che arrivava dall’estero. Che sia diventato universalmente famoso con una canzone che si intitolava proprio L’italiano, bè, sembra la classica profezia che si autoadempie.

Toto Cutugno e l'Eurovision

Parte del fascino di Cutugno sta proprio nel suo trovarsi sempre sospeso tra il sublime e l’abisso, sbagliato anche quando trovava il successo: come definire infatti la vittoria all’Eurovision del 1990 (peraltro ai tempi ancora chiamato Gran Premio Eurovisione della Canzone)? Oggi un evento del genere sarebbe salutato da una festa nazionale tricolore, ai tempi invece produsse poco più di qualche rigo in cronaca. L’Italia dei Novanta del resto snobbava quella manifestazione, tanto che i vincitori del Festival di Sanremo 1989, i Pooh con Uomini soli, declinarono l’invito e lasciarono spazio a Cutugno – che tanto per cambiare era arrivato secondo. Qualche dirigente Rai arrivò perfino a lamentarsi della vittoria di Toto, che avrebbe costretto la televisione di stato a organizzare l’Eurovision successivo. E nessuno sano di mente potrebbe – a distanza di tre decenni – apprezzare ancora l’accozzaglia musicale di Insieme 1992, che riusciva a frullare We are the world, i cori da stadio e le Pubblicità progresso in un mix incredibilmente orecchiabile. Tanto che divenne una hit, ma solo fuori dai confini italiani.
L’Eurovision aveva in ogni caso dimostrato una volta di più la capacità di Toto Cutugno di tenere il palco televisivo, che in quegli anni dominava grazie alle conduzioni proprio in Rai, a partire da quel Piacere Raiuno che fu antesignano dell’intrattenimento pre-pranzo ancora oggi molto in voga.

Inutile rimuginare ancora, oggi, chiedendosi se i molti talenti di Toto Cutugno siano stati colpevolmente sottovalutati dalla storia, o se al contrario una serie di colpi di fortuna lo abbia beatificato a dispetto della sua propensione musicale per il kitsch. Se sia il caso di rivalutarlo, o rifiutare pubblicamente qualsiasi celebrazione. L’unica cosa da fare è riconoscere il suo status di icona globale, e magari riascoltare qualche perla meno celebrata del suo sterminato repertorio, come le meraviglie prog-pop prodotte con gli Albatros alla metà degli anni Settanta.

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