C’è una sola cosa su cui mi sentirei di eccepire nell’ultimo libro di Piergiorgio Odifreddi: il titolo. Laddove è indubbio che gli ultimi 500 anni della storia mondiale sono eminentemente storia occidentale, è infatti probabilmente altrettanto indubbio che il “marcio” annovererebbe comunque laddove si decidesse di porre al posto di “Occidente” il termine “potere”.
Volendo fare un ragionamento stricto sensu filosofico, dovremmo in effetti formulare un titolo più cogente: C’è del marcio, nel potere. Ovunque sia potere, là è ontologicamente data una condizione o vocazione dello stesso a espletarsi – cioè a venire esercitato, in una forma o nell’altra – contro qualcuno. Se le circostanze della storia avessero voluto che lo stesso potere – industriale, economico, politico, militare – fosse stato nella disponibilità di un’entità statuale o continentale asiatica o africana, avremmo verosimilmente assistito, negli ultimi 500 anni, più o meno a quanto abbiamo assistito con il predominio che l’Occidente, gli Stati Uniti d’America in testa, ha esercitato sul resto del pianeta.
Non è dunque “marcio” l’Occidente perché che un suo assiomatico o fisiologico “carattere occidentale” determinerebbe un qualche istinto alla sopraffazione, alla prevaricazione nei confronti di quanti, da “deboli”, non si riconoscono nel suo sistema e nei suoi paradigmi “culturali” di riferimento: cioè, in primo luogo, nell’economia liberale o liberista. Ma l’Occidente è portatore di quello che Odifreddi chiama il “marcio” perché è depositario di quella fatalità a suo modo oppressiva in sé che è il potere.
Detto questo, al tribunale della storia non vanno certo convocate le ipotesi, le congetture, la fantapolitica o l’immaginazione. E tanto meno le proiezioni poetiche. Bensì quello che la storia ha portato di oggettivo con sé.
E cosa hanno portato con sé i 500 anni di storia di dominio occidentale? Odifreddi parte da lontano e, in un’ideale parabola di quello che è stato l’itinerario del potere occidentale dalla fine del Medioevo ai nostri tempi, colloca una data ipoteticamente fondativa nel 1492: quando l’Europa, con Cristoforo Colombo, si avventurò alla scoperta del Nuovo Mondo. Allora cominciarono i soprusi e da allora non cessarono di riprodursi. Fino agli ultimissimi mesi della nostra storia contemporanea, delle tragedie che ci stanno sotto gli occhi.
Se lo sterminio degli Indiani d’America rappresenta, in un certo senso, l’origine o la scaturigine di quanto abbiamo poi osservato nel corso di oltre 500 anni, la guerra in Ucraina e il massacro di Gaza ne sono dunque per così dire l’epilogo. In entrambi i casi potremmo chiamare (seguendo Odifreddi) la logica che sottende al dominio degli altri popoli o delle altre nazioni una sorta di coazione all’espansionismo. Espansionismo verso ovest – in quello che può, a giusto titolo, essere definito il prodromo di tutte le forme di colonialismo a venire – delle potenze occidentali che ridussero a una tragica frattaglia, cioè allo scempio delle riserve concentrazionarie, le popolazioni autoctone indiane allora; ed espansionismo verso est della Nato – che di fatto è una delle concause dell’attuale conflitto ucraino – in questa questa nostra ultima drammatica fase storica.
In mezzo tra questi due poli campeggia tutto quello che, con puntigliosa documentazione, Odifreddi ricostruisce nel suo saggio. Impossibile naturalmente darne conto qui nel dettaglio: basti ricordare, dopo 300 anni di colonialismo – che di fatto hanno “colorato” di Occidente quasi l’intesa estensione del pianeta (il volume C’è del marcio in Occidente è corredato da un emblematico apparato di cartine o mappe sulla diffusione degli avamposti occidentali lungo il globo) – quasi l’intera storia moderna è storia di guerre imperiali e di fenomeni più o meno controversi di “esportazione del modello occidentale” (detta altrimenti “esportazione della democrazia”). Cioè, in buona sostanza, di “globalizzazione” in quanto occidentalizzazione o tentativo di occidentalizzazione.
Piergiorgio Odifreddi, C'è del marcio in Occidente, Raffaello Cortina Editore
E poco vale argomentare che “quelli erano altri tempi”. Dalla Seconda guerra mondiale a oggi, secondo i calcoli di Odifreddi, nulla o quasi nulla è cambiato. Tranne 4 anni di presidenza Carter, che dopo la guerra del Vietnam impose al Congresso di evitare ogni intervento bellico in terre altrui, non un solo anno è trascorso senza che Stati Uniti e Occidente siano stati coinvolti in un conflitto. Un quadro su cui si possono naturalmente esercitare i distinguo del caso, ma che di fatto impone almeno una domanda: Siamo sicuri che quando facciamo dell’Occidente un “santino” abbiamo perfettamente contezza di cosa stiamo parlando?
Il saggio di Odifreddi è utilissimo se non altro a questo: a esercitare il pensiero all’autocritica e all’empatia. Autocritica: per porci nei confronti di noi stessi in una posizione di oggettività scevra da autoidolatria. Empatia: per capire che se l’Occidente si presume o forse è il centro del mondo, non per questo le ragioni altrui non meritano la nostra considerazione. E, perché no, quando è necessario, la nostra commiserazione.
Ombra
Cliché 19.04.2023, 21:55