Tra i non pochi fraintendimenti cui è stato vittima Charles Darwin, il grande biologo inglese, padre dell’evoluzionismo, vi è sicuramente quello secondo il quale il motore della evoluzione è la supremazia del più forte. Un fraintendimento dovuto probabilmente anche alla traduzione-interpretazione del termine inglese fittest, inteso da Darwin come il ‘più adatto’ e dunque come ‘successo riproduttivo’ - ossia l’unità di misura della selezione naturale e sessuale, che premia chi ha maggiori probabilità di sopravvivere e riprodursi - e diventato poi sinonimo de’ ‘il più forte’, che come sappiamo ha portato allo sviluppo, nell’ Inghilterra vittoriana, del darwinismo sociale, così da poter giustificare il comportamento competitivo della nostra specie in ambiti sociali, biologici ed economici.
Per fortuna lo stereotipo della evoluzione come una lotta-competizione dove sopravvive solo il più forte è ormai superato, quantomeno fra gli studiosi, per i quali risulta ormai chiaro che la lotta reciproca è una legge della natura tanto quanto la socialità e la cooperazione, che anzi risulta essere una delle chiavi fondamentali, forse la più importante, dell’evoluzione.
Dopo Darwin non furono pochi coloro che cercarono di rimettere le cose nella giusta prospettiva, a partire dal biologo e filosofo anarchico russo, Peter Kropotkin (1842-1921) nel suo libro Il mutuo appoggio: un fattore di evoluzione:
Sebbene ci sia un’immensa quantità di guerre e stermini in corso tra varie specie , e soprattutto in mezzo a varie classi di animali, c’è, allo stesso tempo, tanto, o forse anche di più, mutuo sostegno, mutuo soccorso e mutua difesa tra animali appartenenti alla stessa specie o, almeno, alla stessa società…
D’altronde alla base della vita stessa vi è il principio della aggregazione-cooperazione: di atomi e cellule certo (pensiamo al nostro corpo, un insieme cooperativo di milioni di cellule), ma anche di individui.
Se poi si guarda al mondo animale, come ricorda Roberto Cazzolla Gatti, ecologo, biologo della conservazione, evoluzionista italiano e Professore associato di Biologia della Conservazione e Biodiversità all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, le specie che collaborano di più sono tra quelle di maggior successo e diffusione sul nostro pianeta: si pensi agli «insetti sociali (come formiche, vespe, termiti e api), banchi di pesci, stormi di uccelli, branchi di erbivori, branchi di lupi, gruppi di primati, ma anche alle famiglie umane, alle città e persino alle istituzioni che offrono tutti una buona prova che la competizione potrebbe non essere il più importante, o quanto meno non il solo, fattore di selezione naturale. In innumerevoli società animali, la lotta tra individui è sostituita dalla cooperazione».
La socialità è dunque una legge della natura tanto quanto la lotta e la competizione.
E questo vale, evolutivamente, anche per gli uomini. Anni fa, uno studente chiese all’antropologa statunitense Margaret Mead (1901-1978) quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura antica. Mead rispose sorprendentemente: «un femore rotto e poi guarito». Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori, non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca. Un femore rotto che è guarito, è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi.
E concluse che «aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto in cui la civiltà inizia».
Ecco perché, soprattutto negli ultimi anni, molti altri scienziati, evoluzionisti in testa ma non solo, si sono ormai convinti che la chiave dell’evoluzione sia nella collaborazione. Solamente con un lavoro di squadra, infatti, si riesce a sopravvivere e a continuare a evolversi.
Lo hanno raccontato fra gli altri, Lynn Margulis con il suo La scoperta dell’evoluzione come cooperazione (L’Asino d’oro, 2021) e recentemente anche Brian Hare e Vanessa Woods, entrambi ricercatori del Center for Cognitive Neuroscience della Duke University, in Survival of the friendliest: understanding our origins and rediscovering our common humanity, (2020):
Le persone credono che un maschio alfa sia più adatto e meriti di vincere, ma non è quello che intendeva Darwin, né quello che è stato dimostrato.
La strategia di maggior successo nella vita è la cordialità e la cooperazione.
Anche se, va detto, la cooperazione non è scevra di paradossi, perché la Natura - di cui facciamo parte anche noi Sapiens - è contraddizione e diversità – come spiega bene l’evoluzionista Telmo Pievani anche nel suo La Natura è più grande di noi (Solferino, 2022). Primo fra tutti perché, come scrive anche Darwin, l’attitudine cooperativa umana è un’attitudine difensiva, cioè io sento di essere solidale e cooperativo con i miei simili a patto che il mio simile sia uno come me, che faccia parte del mio Noi, della mia comunità; se invece io percepisco che l’altro può essere un mio potenziale nemico perché non è uno come me, non c’è cooperazione, ma possibilità di minaccia e competizione.
E dunque, paradossalmente, la ragione per cui noi siamo solidali è il fatto che siamo in competizione con altri gruppi; e questo perché siamo ambivalenti per Natura, siamo capaci del bene e del male a seconda delle circostanze. La Natura, che non è un’autorità morale, ci consegna un retaggio ambivalente, ci rende capaci di fare le cose peggiori e allo stesso tempo le cose migliori. Il motivo per cui una volta ci si comporti bene e un’altra male, dipende da una scelta individuale e culturale.
https://www.rsi.ch/s/1779600
La nostra storia evolutiva - come ha spiegato Telmo Pievani in una interessante conferenza, al Festival Solidaria di Padova promossa nel 2021 dal Centro servizio volontariato di Padova e Rovigo - è quella del tribalismo, della solidarietà, sì, ma solo col nostro gruppo, la nostra tribù. Con la cultura però noi possiamo prendere il nostro piccolo ‘noi’ e allargarlo sempre di più: un tempo il nostro noi era la tribù, adesso è la nazione, ma come sperava lo stesso Darwin: «un bel giorno ci sarà un grande ‘noi’ che sarà tutta la specie umana e tutti gli esseri viventi».
Convinto com’era, e a ragione, che se da un lato ci sarà sempre quel tribalismo di base pronto a tornar fuori, un retaggio che ci porteremo sempre appresso, prima o poi riusciremo a privilegiare la cooperazione e le abitudini di mutuo soccorso, le sole, come è successo finora, in grado non solo di farci sopravvivere, ma anche di farci raggiungere il massimo sviluppo dell’intelligenza e il massimo benessere e godimento della vita per l’individuo, con il minimo spreco di energia.
E questo perché nella storia evolutiva dell’uomo da un certo punto in poi la cultura ha cominciato a prevalere sempre di più sulla biologia plasmando profondamente anche il nostro cervello, che è composto di tre aree essenziali che controllano il nostro comportamento: il complesso rettiliano, detto anche cervello primitivo, che reagisce al pericolo; il sistema limbico che sente emozioni e sentimenti; e la neo-corteccia che ragiona e progetta, una sorta di sala di controllo e di comando di una missione.
E queste tre sezioni funzionano in modo gerarchico, seguendo un principio: gli impulsi più basici vengono -o dovrebbero venire- progressivamente raffinati e infine razionalizzati.
Dunque, proprio perché l’essere umano conserva un cervello primitivo, noi siamo seduti su mondi atavici e ripetiamo senza saperlo la psicologia dell’atavismo. Ma la nostra psiche non è soltanto quella che abbiamo ereditato dai nostri avi, è anche frutto dell’evoluzione culturale, è razionalizzazione, è raffinamento di quegli impulsi primitivi che ci fanno percepire un pericolo; è anche altruismo, affettività, generosità, creatività.
https://www.rsi.ch/s/1779574
È ciò che ci permette, o ci dovrebbe permettere, di capire che cooperare non solo conviene, ma è anche la miglior strategia per garantire la sopravvivenza nostra e del nostro pianeta.