Anche il progresso, dopo matura e attenta riflessione, votò contro, ha scritto nei quasi archeologici anni Sessanta uno scettico realista come Ennio Flaiano, conferendo alla riflessione lo spicco simbolico dell’aforisma. Ma la riflessione stessa, almeno tra gli spiriti maggiormente avvertiti, ha radici ancora più lontane nel tempo, perché è da almeno un secolo e mezzo -da Nietzsche in poi, se proprio si vuole fissare un termine post quem- che la cultura occidentale, intesa anche nel senso più ampio di “civiltà”, non smette di dubitare fortemente di sé stessa.
Il “progresso” immaginato da Flaiano vota contro perché, dopo “matura e attenta riflessione”, e non da ultimo dopo gli orrori e le infamie variamente assortite del “secolo breve” (ma oggi possiamo aggiungere anche il tutt’altro che glorioso e rassicurante inizio del ventunesimo secolo), si osserva allo specchio e si rende conto di essere una finzione, una mera proiezione immaginativa. E nello stesso tempo si rende conto che anche la cultura e la civiltà, esattamente come «l’animo umano» del quale si parla nel “Woyzeck” di Büchner, sono ricoperte da una crosta sottilissima, uno strato superficiale sotto il quale si spalancano «l’abisso» e la tenebra. E «a guardare dentro» l’abisso, dice sempre Woyzeck, «vengono le vertigini». Il dato antropologico, va da sé, è a dir poco disperante: la cultura-civiltà sarebbe servita a poco o nulla, perché l’animo umano, malgrado le “magnifiche sorti e progressive”, rimarrà sempre un abisso e proverà sempre le vertigini al cospetto di se stesso e dell’ignoto (che in ultima analisi sono quasi la stessa cosa). La tenebra è dappertutto.
In tempi di incertezze virali, angosce e nuovi millenarismi, mentre si sta verificando un sostanziale mutamento di coordinate esistenziali che un residuo nonché malinteso ottimismo storicista ci aveva quasi obbligato a considerare eterne e immutabili, appare assolutamente necessario articolare una riflessione sulla tenebra che si annida nell’animo umano, da sempre rimossa e occultata, ma anche sempre pronta a riemergere con esiti catastrofici. Perché nel cuore dell’uomo ci saranno anche le “intermittenze” della memoria delle quali parlava Proust, ma anzitutto (e soprattutto) ci sono l’abisso, la vertigine, la tenebra. Anzi, il cuore dell’uomo è “la” tenebra.
“Cuore di tenebra”, l’incommensurabile capolavoro di Joseph Conrad, che si situa concretamente ma anche simbolicamente all’inizio del “secolo breve” (la prima edizione è del 1899), rimane oggi una lettura davvero imprescindibile per capire cosa sia stato l’uomo, cosa sia tuttora e cosa sarà, con ogni evidenza, fino al giorno della sua estinzione. Il lungo racconto è la reinvenzione narrativa, dilatata in chiave simbolica, di un’esperienza che lo stesso Conrad visse nel 1890, verso la fine dei suoi anni di marineria, quando si trovava alle dipendenze della “Società anonima belga per il commercio nell’Alto Congo” e risalì l’omonimo fiume fino alle Stanley Falls. Per l’allora 33enne Conrad, che amava la salsedine e il mare aperto con la sua «maestosa monotonia» (quel mare, ha scritto in “Gioventù”, che «sa sussurrarti all’orecchio, ruggirti contro e toglierti il respiro»), fu il primo e unico viaggio in acqua dolce, ma fu soprattutto un’autentica odissea, una sorta di allucinata variazione già tutta novecentesca sul tema goethiano della discesa alle Madri, che lasciò profonde tracce sul suo fisico (nel corso del viaggio, Conrad contrasse febbri malariche e un principio di gotta che minarono per sempre la sua salute) e influenzò in maniera decisiva la sua concezione della vita, principalmente a causa del brutale contatto con le nefandezze del colonialismo.
Lo sfondo è rappresentato dal sole cocente e dai vapori dei Tropici: contrade inospitali dove tutto è nemico, la Natura che ingoia come una sabbia mobile storia civiltà e cultura, luoghi che ingarbugliano il cervello e fanno apparire la vita e gli uomini in una prospettiva completamente nuova, zone impervie dove tutto è sinistramente assoluto e quindi ricondotto ai dati primari dell’esistenza, che il colonialismo e molti “ismi” del Novecento hanno tentato vanamente di rimuovere. E’ su questo sfondo che Conrad alias Marlow, nella reinvenzione narrativa, va in cerca dell’enigmatico Kurtz, reso folle (o drammaticamente savio?) non solo dalla solitudine e dalla perversa volontà di potenza della razza bianca, ma anche dalla visione di ciò che sta immediatamente sotto la superficie della vita, fino ad intriderla: la tenebra, il suo cuore, il suo abisso, la sua vertigine. Una tenebra, tra l’altro, che l’uomo stesso contribuisce a creare, per poi restarne vittima. Si capisce insomma perché “Cuore di tenebra” è non soltanto il libro dei libri sul colonialismo, su ogni colonialismo, ma anche sul fondo melmoso della condizione umana.
Uno dei suoi lettori più attenti e maggiormente vicini alla sua sensibilità anche per motivi biografici, il compianto V.S. Naipaul, ha osservato che Conrad scriveva romanzi e racconti simili a film molto semplici, ma con un commento estremamente complesso. Si tratta di un assunto che vale in particolare per “Heart of Darkness” e spiega non solo il segreto di un film di complicatissima semplicità come “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola, che ha trasposto in uno dei grandi cuori di tenebra del Novecento (la guerra nel Vietnam) la vicenda del racconto, ma anche il nucleo della poetica di Conrad.
E’ una poetica che in “Cuore di tenebra”, nel personaggio di Kurtz, esprime una verità tanto semplice quanto abissale: non esiste via d’uscita, né nella civiltà occidentale, né al di fuori di essa, l’uomo non conosce se stesso, il mondo è una trama di apparenze che non rimandano a una “realtà” più autentica e non celano alcuna verità, se non quella del vuoto e della tenebra. Marlow, dopo la morte di Kurtz, esprime in questo modo una simile consapevolezza: «Che buffa cosa, la vita… Questo misterioso concatenarsi di una logica implacabile per uno scopo tanto futile. Il più che se ne possa sperare è una qualche conoscenza di sé stessi, che giunge troppo tardi». La tenebra (il «brutto potere», come dirà poi Primo Levi) è dappertutto, perché è la vita stessa.
La cultura-civiltà sembra quindi contenere in sé il germe della dissoluzione e rimane un reticolo di menzogne e finzioni steso pietosamente sopra una Natura (la “wilderness”, come la definisce Conrad) che non cessa di inviare all’uomo, nato pur sempre dal suo grembo biologico, tutta una serie di segnali ancestrali, primordiali, ingestibili perché non meglio decifrabili e identificabili. E soprattutto terrificanti. Ecco perché Kurtz, dal suo personalissimo cuore di tenebra, che è più che mai il nostro, non può che ripetere: «L’orrore… L’orrore…». Conrad lo definisce «un grido che era poco più di un sospiro». Oggi, invece, ci sembra una gelida e sinistra constatazione.