Non ricordo la prima volta in cui ho letto da qualche parte che l’aggettivo “inclusivo” era problematico. Ricordo però che ho immediatamente pensato: «Ma come? ma in che senso? sarebbe così bello vivere in un mondo in cui chiunque sia incluso». Questa idea è diffusa, a giudicare dalla fortuna che l’aggettivo “inclusivo” ha avuto negli ultimi anni. Lo troviamo accostato ai concetti più diversi, dal “linguaggio” al “marketing”, per arrivare perfino a un ossimorico “capitalismo”. È diventato così di moda da aver iniziato a perdere il suo significato originario.
Ma il significato originario era così auspicabile? “Inclusivo”, per il Grande Dizionario della Lingua Italiana, significa «che include, che comprende (o può comprendere) in sé qualche cosa». E come può essere negativo, l’atto di includere? Lascio la parola a Fabrizio Acanfora: «l’inclusione non si traduce in una reale uguaglianza delle parti», perché esiste «uno squilibrio di potere tra chi include, che anche senza porre condizioni all’ingresso nel gruppo di maggioranza può decidere se e quando permetterlo, e chi viene incluso, che riceve il permesso di far parte del gruppo in cui è accolto» (In altre parole. Dizionario minimo di diversità, Effequ, 2021).
Acanfora avanza una proposta alternativa a “inclusione”: «‘Convivenza’ non dice nulla su chi decide cosa, ma ispira un’idea di mutuo rispetto, parità e neutralità. [...] Preferisco fare un passo avanti e cominciare a parlare di convivenza delle differenze, che vuol dire responsabilità collettiva di ogni singolo elemento della società dalla maggioranza alle minoranze alle singole persone che le compongono, nella creazione di una cultura profondamente solidale e rispettosa della diversità e dell’unicità di ciascunə».
E quindi, come ci comportiamo con il “linguaggio inclusivo”? Proviamo innanzitutto a capire di cosa si tratta, ripercorrendone in breve la storia recente. Da qualche anno, soprattutto la sociolinguista Vera Gheno ha contribuito a far uscire questo concetto da contesti di studio e attivismo. Purtroppo è stato spesso frainteso e mal interpretato nelle discussioni da salotto. Nei migliori dei casi, è stato equiparato al semplice linguaggio di genere, o non sessista. Questa rinnovata attenzione ha portato aspetti positivi: finalmente si leggono e discutono le proposte avanzate nel 1987 da Alma Sabatini nel saggio Il sessismo nella lingua italiana, commissionato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e ignorato per oltre trent’anni. Tra queste, l’uso dei femminili professionali. Ma il processo di cambiamento è molto lento. Lo dimostra la bocciatura della proposta della senatrice Alessandra Maiorino, il 27 luglio 2022. Aveva chiesto di usare «formule e terminologie che prevedano la presenza di ambedue i generi» nella comunicazione istituzionale e nell’attività dell’Amministrazione (Proposta di modifica n. 5.0.200 al documento Doc. II, n. 12, in Senato della Repubblica, 27 settembre 2022).
Il discorso si è però anche polarizzato: ormai il “linguaggio inclusivo” è una questione politica più che grammaticale o, al limite, etica. Oggi chi ha posizioni progressiste caldeggia questo tipo di linguaggio, e chi ha posizioni conservatrici lo avversa. Ma questo rischia di far perdere di vista il suo senso ultimo. Che è, o può essere, molto più del semplice linguaggio di genere. È uno strumento che può permettere di comunicare in modo consapevole, rispettoso e gentile con qualunque persona, a prescindere dalle (o proprio per le) sue caratteristiche identitarie. Ha quindi una portata che supera il semplice riconoscimento dei femminili professionali, o la proposta di usare lo schwa o l’asterisco al posto del maschile sovraesteso. (Per approfondire quest’ultimo tema, consiglio L’avventura dello schwa, di Vera Gheno, Effequ, 2021; Cecilia Robustelli, Lo schwa al vaglio della linguistica, «Micromega», vol. 5, 2021; Paolo D’Achille, Un asterisco sul genere, 2021).
Scegliere di usare questo tipo di linguaggio significa scegliere di vedere e rispettare una serie di caratteristiche spesso invisibilizzate: etnia, religione, provenienza geografica e sociale, ricchezza, istruzione, lingua, salute fisica e mentale, presenza o meno di disabilità, neurodiversità, identità di genere, orientamento sessuale e relazionale, età, aspetto fisico... Significa rispettare il diritto di autodeterminarsi di ogni persona, che passa anche dal linguaggio e dalle parole con cui sceglie di definirsi.
La scrittrice Kübra Gümüsay ci propone di pensare alla lingua come a un museo in cui ci sono due categorie di esseri umani: i “nominati” e gli “innominati” (Lingua e essere, Fandango Libri, 2021). Gli innominati sono lo standard. I nominati deviano in qualche modo dalla norma degli innominati: sono strani, diversi. Non sono normali. Gli innominati danno un nome collettivo ai nominati. Questo nome «li riduce a segni caratteristici e proprietà che gli innominati credono siano tipici in loro». In altre parole: a stereotipi, che spesso portano a pregiudizi.
Attraverso il linguaggio, invece, possiamo contribuire a costruire una narrazione diversa. Possiamo usare le parole che i “nominati” scelgono per sé.
Alice Orrù sostiene che «quello che chiamiamo linguaggio inclusivo si riferisce a un universo molto più ampio. Proprio per questa sua pluralità, non sarebbe male abituarci a parlarne al plurale: linguaggi inclusivi» (in Valentina Di Michele, Andrea Fiacchi, Alice Orrù, Scrivi e lascia vivere, Flacowski, 2022). Sono della sua stessa idea: meglio il plurale. Ma forse “inclusivo” non è (più) l’aggettivo adatto a descrivere quello che vogliamo ottenere attraverso questi linguaggi.
Negli ultimi anni si sono affiancate diverse alternative all’espressione “linguaggio inclusivo”: da più di un decennio esiste il progetto Parlare civile per «comunicare senza discriminare»; Manuela Manera parla di “lingua estesa”; Elisa Manici e Benedetta Pintus di “linguaggio plurale”. Io parlo di “linguaggio consapevole, rispettoso e gentile”, espressione simile a quella scelta da Annamaria Anelli per il suo «quaderno di appunti» Parole rispettose. Ethan Bonali preferisce “linguaggio ampio”, espressione che anche Vera Gheno ha recentemente appoggiato.
Vera Gheno spiega perché preferisce l’aggettivo “ampio”: perché «sta a significare una riflessione in costante allargamento, un universo linguistico in espansione». Continua: «Le riflessioni sul linguaggio ampio dovrebbero essere viste come uno stimolo ad ampliare i propri orizzonti linguistici, con la consapevolezza che questi possono contribuire ad ampliare anche gli orizzonti mentali, sociali, esistenziali». Aggiunge: «Occorre indicare vie nuove, non costringere le persone a percorrerle». E conclude dicendo che il linguaggio ampio «dovrebbe aprire, problematizzare, non chiudere e normare. Dovrebbe proporre, non imporre. Il linguaggio ampio è una visione della lingua e della sua connessione con la società» (Dal linguaggio inclusivo al linguaggio ampio, in Amare parole, 2024).
A proposito di ampliare il linguaggio, inserendo opzioni e non togliendole: ritengo che oggi l’espressione “linguaggi inclusivi” sia ancora imprescindibile. Ha il pregio di essere diffusa e di aver raggiunto una certa trasparenza di significato anche tra un pubblico di persone non specialiste. Inoltre, come chiede provocatoriamente Orrù: «Possiamo forse negare di vivere in una realtà fondata sull’esclusione?» (Scrivi e lascia vivere, 2022).
Una classe multietnica
RSI Cultura 05.07.1993, 13:14