Dopo il clamore suscitato, non solo in Svizzera ma anche a livello internazionale (ne hanno parlato fra gli altri anche il The Guardian e il New York Times) dalla storica sentenza della Corte europea dei diritti umani (CEDU) di Strasburgo, è il momento di qualche riflessione sulla rilevanza culturale, ambientale e politica della vicenda.
Come è noto a presentare il ricorso, dopo 8 anni di tentativi in diversi tribunali in Svizzera, erano state quattro donne dell’associazione Anziane per il clima, (circa 2’500 socie, età media 73 anni), le quali, supportate da Greenpeace, hanno denunciato la Confederazione per inazione di fronte al cambiamento climatico. Affermando, nello specifico, che le donne anziane sono particolarmente vulnerabili alle ondate di caldo da esso provocate. Lo dimostrano vari studi scientifici: il caldo uccide perché aumenta il rischio di problemi renali, attacchi d’asma, disturbi cardiovascolari e provoca sintomi particolarmente acuti negli anziani, soprattutto fra le donne.
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Hanno così chiesto alla CEDU di obbligare la Svizzera a intervenire a loro tutela, e adottare i provvedimenti legislativi e amministrativi necessari per contribuire a scongiurare un aumento della temperatura media globale oltre 1,5°C, applicando obiettivi concreti di riduzione delle emissioni di gas serra.La corte ha accolto quasi all’unanimità la loro richiesta stabilendo che la Svizzera viola i diritti umani delle donne anziane perché non sta adottando le misure necessarie a contenere il riscaldamento globale. In particolare, il tribunale ha riscontrato una violazione dell’articolo 8 (diritto alla vita privata e familiare, ovvero il diritto di vivere nella propria casa senza correre rischi per la propria salute a causa dei fattori ambientali; e dell’articolo 6 (diritto alla giustizia).
Secondo la Corte dei diritti dell’uomo, la Svizzera «non ha adempiuto ai suoi obblighi in materia di cambiamenti climatici » e «ci sono state deficienze critiche nel processo che doveva permettere di creare un quadro normativo – compresa l’assenza di un bilancio di CO2 –, e quindi «l’incapacità delle autorità di quantificare attraverso un bilancio del carbonio o in altro modo i limiti delle emissioni nazionali di gas a effetto serra».
La Confederazione, come ha ricordato anche Ian Fry, esperto di diritto e politica ambientale internazionale, oltre a non aver raggiunto gli obiettivi che si era posti, e a non aver rispettato gli impegni presi a livello internazionale, si è per lo più limitata all’acquisto di crediti di carbonio a basso costo all’estero piuttosto che occuparsi delle emissioni all’interno dei confini svizzeri.
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Al di là delle prevedibili reazioni politiche e dell’uso che i partiti faranno della sentenza, restano i fatti, incontrovertibili. Innanzitutto il contesto: proprio il giorno della sentenza (il 9 aprile scorso) il servizio meteo della Ue, Copernicus, ha diffuso preoccupanti notizie sul riscaldamento globale, essendo stato marzo 2024 il mese più caldo mai registrato, ed il decimo mese di seguito da record. Ma non basta: negli ultimi 12 mesi, l’aumento di temperatura medio dai livelli pre-industriali ha superato il limite di 1,5°C fissato dall’Accordo di Parigi, arrivando a 1,68°C.
Il peggio è che non si tratta di un’anomalia ma di un trend costante. Lo dimostrano anche gli ultimi dati pubblicati i giorni scorsi dalle Nazioni Unite e dalla UE, che hanno lanciato l’ennesimo allarme sulle conseguenze del Riscaldamento climatico in Europa, dove la temperatura media sta aumentando molto di più rispetto a tutti gli altri continenti: tra il 2018 e il 2023, l’aumento è stato di 2,3 gradi rispetto all’epoca preindustriale, mentre nel resto del mondo è di 1,3 gradi. La Svizzera, in quanto piccolo paese alpino, ne soffre in modo particolare: nel biennio 2022-2023 i ghiacciai svizzeri hanno perso il 10% del volume residuo.
E anche quanto agli effetti nocivi dei cambiamenti climatici sulla salute dei cittadini, gli studi scientifici (come quelli citati dalle Anziane per il clima) non mancano. Insomma, da decenni scienziati di tutto il mondo ci mettono in guardia sui rischi di un mancato cambiamento di rotta. E nessuno ormai può negare che quella climatica sia la più grande sfida – anche dal punto di vista economico – che l’umanità si trova a dover affrontare.
Ma noi continuiamo a fare lo struzzo, con la complicità del nostro cervello che adotta una serie di meccanismi psicologici che intralciano il cambiamento dei nostri comportamenti: «il bias dell’ottimismo (che ci spinge a minimizzare l’impatto negativo di un evento); il bias culturale (l’uomo si salverà sempre e comunque grazie al progresso tecnologico”), il bias di conferma (il nostro cervello assorbe le informazioni che confermano la nostra visione del mondo, e rigetta le altre)».
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Sta ora alla politica svizzera, ma non solo, trovare le misure necessarie per invertire la rotta. Ma al di là dell’incertezza sui progressi concreti nella protezione del clima che questa sentenza porterà con sé, quello delle Anziane per il clima è stato un inaspettato cavallo di Troia, che mina dall’interno uno status quo pernicioso non solo per la categoria delle anziane, o per gli ancora benestanti paesi occidentali, ben più al riparo dalle conseguenze dei cambiamenti climatici di quasi tutte le altre regioni del mondo.
Un’ingiustizia climatica che attraversa lo spazio e il tempo perché a pagare il prezzo più alto saranno sia i poveri del mondo, sia le future generazioni. I giovani da noi erediteranno non solo i nostri geni, le nostre idee, la cultura: d’ora in poi i nostri figli erediteranno anche i cambiamenti ecologici che noi, nella nostra generazione, abbiamo introdotto, e dovranno adattarvisi.
https://www.rsi.ch/s/2118166
Proprio per questo, indipendentemente da ciò a cui porterà concretamente questa sentenza, e da un dibattito politico che si preannuncia molto acceso, resta il fatto che le Anziane per clima hanno compiuto un importantissimo lavoro di sensibilizzazione. La loro infatti non è solo una vittoria simbolica, ma ha un grandissimo valore proprio per il significato che contiene, che si proietta proprio sulle generazioni future. La loro vittoria non è solo uno strumento in più a disposizione anche dei nostri giovani, ma aggiunge un elemento che nel dibattito pubblico è stato finora totalmente mancante: il ‘peccato di omissione’.
Ogni qualvolta si adotta una nuova regolamentazione sulle auto elettriche, o sulle case ecologiche, o in generale sulla transizione ecologica-energetica, subito nel discorso pubblico sorge la domanda: ‘eh già, ma chi paga?’ Domanda lecita, certo, ma manca l’altra metà della domanda, la più importante: chi paga se queste cose non le facciamo, o se la transizione ecologica la rimandiamo di vent’anni anziché farla adesso? Chi pagherà per l’inazione?
https://www.rsi.ch/s/2120737
Ed è proprio ciò su cui pone l’accento la sentenza della CEDU: l’inazione, l’omissione. Non possiamo più pensare di non essere responsabili delle nostre azioni mancate. Quella sentenza ci dice invece che non fare niente significa far pagare un conto ancora più salato alle generazioni successive. D’altronde questo non è più un argomento vago: già da tempo – almeno dal Rapporto Stern sui cambiamenti climatici del 2006 – molti studiosi e riviste scientifiche stanno quantificando il danno ambientale ed economico causato dall’attendismo e dalla lentezza della transizione ecologica. E si tratta di un costo altissimo: secondo l’ultimo calcolo pubblicato recentemente su Science Advances e su Nature, se si mette sul piatto della bilancia quello che ci costa prevenire (per esempio, gli eventi atmosferici estremi) e quello che ci costa invece affrontarli a posteriori, la proporzione è di 1 a 20. Ogni franco non speso in prevenzione, cioè, si trasforma in 20 franchi da pagare più avanti. Ecco perché la sentenza della CEDU non è solo simbolica.
Anche perché gli effetti domino si faranno sentire presto. Sebbene la Corte di Strasburgo, non volendo interferire nella politica nazionale, abbia rinunciato a ordinare alla Svizzera l’adozione di misure specifiche, il suo verdetto potrebbe comunque influenzare la giurisprudenza dei 46 Stati membri dell’organizzazione.
La decisione segna così un importante precedente per le controversie sul clima a livello globale, e ci si aspetta che abbia delle ricadute sulle future cause climatiche, in Europa e a livello globale, tenendo conto che l’importanza delle cosiddette climate litigation (o cause climatiche) nel mondo sta crescendo. Il loro numero infatti, secondo l’UNEP (United Nations Environment Programme), è più che raddoppiato dal 2017 a oggi.
Di fatto, tutti gli Stati del Consiglio d’Europa potrebbero infatti essere invitati dai loro cittadini a rivedere e, se necessario, rafforzare la loro politica climatica sulla base dei principi sviluppati dalla CEDU per salvaguardare i diritti umani.
Probabilmente la dinamica politica in materia ambientale non cambierà molto presto. E in questo senso arrivano, soprattutto dalla Gran Bretagna e dagli Usa, segnali ben poco incoraggianti: come scriveva il The Guardian il 25 aprile scorso, all’industria dei combustibili fossili si sono aggiunte figure influenti, come il primo ministro britannico Rishi Sunak e la sua segretaria per l’energia Claire Coutinho, nel sostenere che un taglio drastico delle emissioni non è possibile né auspicabile.
Ecco perché la sentenza della CEDU potrebbe avere davvero un grande valore. Senza dimenticare – come ha affermato anche Bruno Oberle, già direttore dell’ufficio federale dell’ambiente e capo dell’Unione internazionale per la conservazione dell’ambiente – il ruolo fondamentale dei cittadini, che in quanto elettori, consumatori, correntisti bancari che pretendono scelte finanziarie etiche ecc., quando vedranno i loro beni e la loro vita a rischio per il cambiamento climatico potranno davvero agire per cambiare queste dinamiche. Perché alla fine sarà la realtà – la realtà dei cambiamenti climatici che tutti noi vivremo sulla nostra pelle – ad avere la meglio sulla politica e sulla «perizia gattopardesca e autoassolutoria che regna ai piani alti delle nostre società» (Andrea Fantini, Un autunno caldo, Codice Edizioni, 2023).
Sperando che non sia troppo tardi.
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