Sposata da poco, io e mio marito vivevamo in due città diverse. Un giorno ho aperto la sua dispensa e ho trovato una ragnatela enorme, con una mamma ragno che troneggiava al centro, vicino a una palla di uova pronte a dischiudersi. Ho tirato un urlo e mi sono girata verso Federico, che aveva visto tutto. Con un sorriso sornione mi ha detto: «Be’, tu hai i tuoi animali domestici [i nostri gatti], io i miei».
La battuta ha stemperato l’atmosfera, ma la questione era spinosa. Lui viveva da solo da alcuni anni, ma quando mi lamentavo perché la sua casa (che è poi diventata la nostra) non era abbastanza pulita, mi ribatteva che i miei «standard igienici» erano «troppo alti». Le discussioni finivano sempre con «Fai tu, che sei più brava» o, al massimo, con «Dimmi tu cosa fare, allora».
«Dimmi tu cosa fare» è una frase che mi piace molto in ambito professionale, se ho un team che lavora per me. Ma mi fa imbestialire in ambito privato: perché dovrei dire cosa fare a persone mie pari, famigliari, amiche? Questo succede molto spesso in relazioni di coppia eterosessuali, in cui la donna non si occupa solamente delle attività pratiche di gestione della casa, di eventuale prole, animali domestici e altre persone della famiglia, ma le viene attribuito anche il cosiddetto “carico mentale”. Ne ha parlato Emma Clit, fumettista, ingegnera e autrice del saggio illustrato Bastava chiedere! (Laterza, 2020). «Quando un uomo si aspetta che sia la sua compagna a chiedergli di occuparsi delle faccende di casa, significa che la considera già come la responsabile principale dei lavori domestici, e quindi sta a lei sapere cosa c’è da fare e quando farlo. Il problema è che pianificare e organizzare è di per sé un lavoro a tempo pieno». E spiega: «è un lavoro continuo, sfiancante. Ed è un lavoro invisibile», oltre che ovviamente non retribuito, come tantissimi che ricadono quasi esclusivamente sulle donne. Emma Clit spiega che spesso per le donne è «meno stancante continuare a fare tutto da sole piuttosto che combattere con il [proprio] partner perché si faccia carico della sua parte. Ecco perché ci sono padri di bambini già grandicelli che ignorano cosa dar loro da mangiare, dove comprare i vestiti, la data del prossimo vaccino o il numero di telefono della tata».
Racconta bene questa situazione Allison Pearson nel romanzo Ma come fa a far tutto? (Mondadori, 2015, ma pubblicato per la prima volta nel 2002): Kate è in carriera, come il marito Richard. Hanno due figli e una casa da gestire, ma affrontano le responsabilità famigliari in modo molto diverso. Nonostante Richard sia consapevole che lei è stressata e sopraffatta, non si prende mai davvero carico delle faccende domestiche. «Ma quanto devono far schifo le spugnette in questa casa, prima che qualcuno le butti via?» si chiede Kate. E poi, quando le viene un eczema e l’infermiera le chiede come ridurre lo stress, prova a pensare a soluzioni variegate: «Vediamo… Trapianto di cervello? Vincita multimilionaria alla lotteria? Marito riprogrammato perché capisca che in genere la biancheria stirata lasciata ai piedi delle scale va portata di sopra e riposta nei rispettivi armadi?».
I dati continuano a confermare una grande disparità nella distribuzione del lavoro domestico in base al genere: nel 2023, le donne hanno dedicato al lavoro familiare il 61,6% del tempo di lavoro totale (ISTAT, Rapporto SDGs 2024). Solo il 21,5% degli uomini e il 16,3% delle donne dichiara che le pulizie della casa sono divise equamente, ed è significativa anche la disparità di percezione del carico di lavoro tra donne e uomini (CISF Family Report 2024. Case e città a misura di famiglia, realizzato dal Centro Internazionale Studi Famiglia, 2024).
C’è un doppio standard tra uomini e donne, racconta Joe Pinsker in The Myth That Gets Men Out of Doing Chores (in «The Atlantic», 2021, che ho conosciuto attraverso l’articolo di Debora Attanasio Uomini e faccende domestiche sono geneticamente incompatibili?, in «Marie Claire», 2021). Uno studio del 2019 dimostra che dalle donne ci si aspetta un maggior ordine (Sarah Thébaud, Sabino Kornrich, Leah Ruppanner, Good Housekeeping, Great Expectations: Gender and Housework Norms, in «Sociological Methods & Research», 50 (3), 2019). Sempre Pinsker riporta il parere di Jill Yavorsky, sociologa presso l’UNC Charlotte: «Possono gestire aziende, ma non riescono a capire come funziona un mocio [...]. Non è, ovviamente, una mancanza di abilità, ma piuttosto il privilegio e le norme di genere che consentono loro di sottrarsi a questo tipo di lavoro a casa» (traduzione mia). Lo conferma anche la psicologa e psicoterapeuta Chiara Maddalena, intervistata da Attanasio: «Gli uomini sono bravissimi a delegare perché, a livello culturale, sono stati educati a farlo». E quindi affidano alle proprie compagne anche l’organizzazione del lavoro domestico, che è di per sé un lavoro.
Emma Clit suggerisce alcune possibili soluzioni: «gli uomini dovrebbero sentirsi responsabili della loro vita famigliare. Tanto per cominciare, sarebbe già un passo avanti se i padri rivendicassero il diritto di stare in famiglia durante i primi mesi di vita del bambino». Ma la speranza è nelle generazioni future, ed è nostra responsabilità educarle alla parità di genere anche in famiglia.