Verso metà anni Novanta il Festival di Sanremo non è più da tempo incentrato unicamente su cuore-sole-amore. Si è già visto e sentito un po’ di tutto, anche in fatto di canzoni impegnate.
Ma quando, nell’ultima settimana di febbraio del 1994, su quel palco sale Giorgio Faletti succede qualcosa di memorabile. Si replica su vasta scala quanto accaduto al momento in cui il 43enne astigiano aveva letto in anteprima al produttore Danilo Amerio i versi per un brano, e il giorno dell’audizione, quando Pippo Baudo aveva ascoltato quelle parole con la base musicale, e si era commosso. Nessun dubbio per il presentatore e neo-direttore artistico: quei versi, letti volutamente con inflessione siciliana, meritano la platea dell’Ariston. Ma c’è un ostacolo: il regolamento impone almeno una parte cantata, che viene allora aggiunta come introduzione ad un testo (quello di “Signor tenente”) che spiazza tutti. Faletti, fino a quel momento conosciuto come attore comico, ha sfoderato un’opera di bruciante attualità, e la interpreta con insospettato talento drammatico.
“Signor tenente” è un omaggio alle forze dell’ordine, ai carabinieri vittime della mafia, come negli attentati di Capaci e di Via D’Amelio, costati la vita ai magistrati Falcone e Borsellino ma, come molti altri, anche a giovani servitori dello Stato in uniforme. La loro storia irrompe tra riflettori e paillettes in un brano inconsueto, duro e poetico al tempo stesso, che nella storia del Festival farà… storia a sé. Una bomba metaforica contro le bombe vere. Tanto toccante che pur essendo totalmente fuori dagli schemi di Sanremo, per l’argomento che tratta, per la sua forma e per la sua interpretazione, arriva seconda. E ne è probabilmente la vincitrice morale.
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