Si definisce una femminista feroce e radicale, e confessa senza remore: “Volevo essere un uomo”. Una delle voci più penetranti della letteratura italiana contemporanea, quasi quaranta libri all’attivo – a partire dal celebre Porci con le ali (1976), manifesto politico e generazionale scritto insieme a Marco Lombardo Radice – Lidia Ravera volge lo sguardo sul suo cammino personale. Non un romanzo, ma una confessione, spiega, invitando a una riflessione collettiva sul potere, la libertà e il desiderio. Nel nuovo libro, infatti, Volevo essere un uomo (Einaudi), si racconta in una lunga lettera a se stessa, rivisitando con sguardo lucido le battaglie, la famiglia, il rapporto con il corpo, il passare del tempo. Il punto di partenza è un episodio che ha segnato la sua vita: quando la madre le raccontò di aver desiderato un maschietto, ma, purtroppo, si ritrovò con una figlia. Il desiderio di essere un uomo diventa così una potente metafora del bisogno di libertà e di affermazione, qualità spesso legate al mondo maschile, ma che ogni donna dovrebbe poter rivendicare come proprie. In un bilancio intimo e pubblico, tra esperienze di vita e lotte politiche, Ravera ci chiama a ridiscutere le regole del gioco e a costruire un futuro in cui le donne possano essere se stesse, senza dover negare la loro essenza per adattarsi a un sistema che non le riconosce in tutta la loro forza e complessità. E guarda al futuro con speranza nelle nuove generazioni.
“Per più di duemila anni l’invidia verso le donne è stata negata. Peggio: è stata trasformata in svalutazione e le ha spinte ai margini, le ha sminuite, ostracizzate dalle stanze del potere, ridotte a funzioni della propria prosperità, del proprio godimento, le ha calunniate, le ha trattate da inferiori. Le ha bruciate sul rogo come streghe o internate nei manicomi come pazze. Mossi dall’invidia, per una diversità che non potevano dominare, si sono vendicati, gli uomini. E tu vuoi essere uno di loro?”
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