Società

Quel senso dimenticato che ci connette al mondo

Il tatto è una lingua universale, capace di trasmettere verità profonde ma soggetta a norme culturali e sociali in continua evoluzione. Dall’impatto del #MeToo e del Covid sulla deprivazione tattile fino alle implicazioni del digitale, la neuroscienziata Laura Crucianelli ne traccia un ritratto affascinante e toccante

  • 5 maggio, 11:30
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Di: Clara Caverzazio 

Tra i cinque sensi, il tatto è forse il più sottovalutato. Meno celebrato della vista, meno affascinante dell’udito, eclissato dall’intensità del gusto e dell’olfatto, il tatto è però il primo senso che sviluppiamo nell’utero e l’ultimo a lasciarci quando la vita volge al termine. È il senso che ci connette al mondo in modo diretto, fisico, immediato. Eppure, per secoli, è stato considerato “inferiore”, quasi animale.

Nell’antichità, Aristotele fu tra i primi a teorizzare i sensi e a inserirli in una gerarchia. In cima, la vista, ritenuta nobile, “intellettuale”; in fondo, il tatto: il più corporeo, legato alla pelle, alla carne. Per i filosofi greci il sapere vero passava dagli occhi e dalla mente, non dalle mani. Questa visione ha resistito a lungo, influenzando il pensiero occidentale per secoli. Solo tra Otto e Novecento, con la nascita della psicologia moderna e della psicoanalisi, il tatto inizia a essere rivalutato. Freud stesso riconosce il ruolo fondamentale delle sensazioni tattili nello sviluppo psicoaffettivo, specie nei bambini.

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Dalla testa ai piedi: 5 sensi

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Ad offrirci un ritratto a tutto tondo del tatto – il primo dedicato a questo senso tanto pervasivo quanto trascurato – giunge ora un ricco e godibile libro di Laura Crucianelli, neuroscienziata e docente universitaria (è assistant professor al Dipartimento di Psicologia della Queen Mary University of London, dove coordina il corso di Neuroscienze cognitive e affettive): Storia naturale del tatto, Utet 2024, tra i finalisti del Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica. Crucianelli, che da anni studia il tatto affettivo in contesti clinici e sperimentali, riporta questo senso dimenticato al centro dell’attenzione, delineando un ritratto scientifico, culturale ed emotivo di questo “senso della concretezza”, attraverso non solo le neuroscienze, ma anche la psicologia, la fisiologia, la sociologia, e la biologia. Il tatto è ovunque: nella pelle che ci ricopre – l’organo più esteso, quasi due metri quadrati per nove chili di peso – e nei milioni di recettori che trasmettono segnali al cervello. È il primo senso che si accende, già nel grembo materno, e quello che ci àncora al mondo fino all’ultimo respiro. Ci consente di esplorare, riconoscere, di percepire pressione, temperatura, dolore, piacere. E molto più.

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Avere tatto

Geronimo 04.05.2021, 11:35

  • jacabook.org

Il contatto tattile è infatti fondamentale per la sopravvivenza: ci permette di nutrirci, muoverci, mantenere l’equilibrio. Ma ha anche una funzione affettiva: è grazie al tocco – di una carezza, di un abbraccio – che comunichiamo emozioni, costruiamo legami, ci sentiamo riconosciuti e accolti. Il tatto è la nostra prima forma di comunicazione, e la più istintiva. È una lingua universale che ‘parliamo’ tutti in maniera intuitiva. Non è un caso che il contatto pelle a pelle favorisca il rilascio di ossitocina, l’ormone dell’empatia e del legame sociale. O che, in ospedale, il metodo “kangaroo care” – il contatto diretto tra neonato prematuro e madre – migliori la crescita e la regolazione del sistema nervoso del bambino. Studi sullo sviluppo infantile dimostrano che i bambini privati di contatto fisico – come accaduto in alcuni orfanotrofi dell’Est Europa – sviluppano deficit emotivi e cognitivi. Al contrario, un tocco affettuoso e contingente – cioè in sintonia con il momento e il bisogno del bambino – favorisce un attaccamento sicuro e una buona regolazione emotiva.

Certo, toccare ed essere toccati non sono la stessa cosa. Toccare richiede iniziativa; essere toccati, fiducia. Ma entrambi sono fondamentali per definire i confini del sé. Il tatto ci dice dove finiamo noi e dove comincia l’altro. È la bussola che ci orienta nell’identità e nella relazione. In pratica, l’autocoscienza, la socialità e la comunicazione hanno origine in un millimetro di epidermide, il confine tra il corpo e il resto del mondo.

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Una pelle artificiale che trasmette il senso del tatto realizzata dall'EPFL

RSI Info 27.09.2019, 18:05

  • EPFL, Bleff

E proprio perché con il tocco delle nostre mani siamo in grado di esprimere e trasmettere emozioni, il tatto è il senso che più di tutti modula i suoi limiti sulle convenzioni morali. Nel tempo il nostro modo di rapportarci agli altri è andato modificandosi costantemente e il tatto è diventato insieme strumento di trasformazione e lente attraverso cui leggere la società. Basti pensare a come sono cambiati gli scambi fisici dopo il #MeToo o il Covid, evento quest’ultimo che ha causato una significativa deprivazione tattile, privandoci di abbracci e contatti fisici essenziali per il benessere emotivo.

Il tocco, da bisogno primario, è diventato minaccia. E oggi, in una società sempre più digitale e “contactless”, molti hanno interiorizzato la rinuncia al contatto. Ma il prezzo è alto: solitudine, ansia, depressione. Si parla di “fame tattile”, una condizione di deprivazione affettiva che ha conseguenze sul sistema nervoso e immunitario.

Il movimento #MeToo, invece, ha giustamente portato attenzione sull’uso improprio del contatto fisico, ma ha anche contribuito a una nuova prudenza nel tocco. La sfida, oggi, è educare al tatto consapevole, promuovendo il rispetto dei confini personali e l’empatia. D’altronde proprio l’espressione ‘avere tatto’ indica la capacità di comportarsi con delicatezza, discrezione e diplomazia, soprattutto nel parlare o agire in modo da non offendere o ferire gli altri; così come la capacità di comprendere la situazione e di agire di conseguenza, dimostrando sensibilità e rispetto.

Ma forse la vera sfida è ancor prima educare alla consapevolezza del tatto e della sua importanza. Un ruolo fondamentale che le neuroscienze hanno contribuito a definire meglio. Oggi infatti, grazie a tanti studi neuroscientifici, conosciamo molto meglio i “circuiti del tocco”. E abbiamo capito che questo senso non rappresenta una semplice percezione fisica, ma un’esperienza neuro-emotiva complessa. Una finestra del cervello sul mondo. Anche perché quando tocchiamo qualcosa, non ci limitiamo a “sentirla”: la interpretiamo. Le mani sono strumenti di esplorazione e conoscenza. Ecco perché il cervello dedica ampie aree all’elaborazione degli stimoli tattili. Tanto che, secondo alcuni neuroscienziati, non si può pensare davvero senza un minimo di sensorialità.

Nel frattempo, la tecnologia cerca di replicare ciò che le nostre mani fanno naturalmente. Le ricerche sull’“haptic feedback” – la simulazione del tatto nei dispositivi digitali – stanno aprendo nuovi mondi, dalla chirurgia robotica alla realtà virtuale, dalle protesi intelligenti all’arte digitale. Eppure, anche in un futuro ipertecnologico, il tatto resta ciò che ci àncora alla vita vera, concreta. Nessun algoritmo può sostituire la sensazione di una mano che ci stringe con affetto, o di un tessuto morbido che scivola sulla pelle.

E dunque, come ci suggerisce Laura Crucianelli, è il momento di riportare il tatto al centro. Non solo come senso biologico, ma come linguaggio, forma di relazione, strumento di cura. In un’epoca sempre più “touchless”, e in un mondo che ci spinge sempre più a separarci – dagli altri, dal corpo, da noi stessi – riscoprire il valore del tatto è forse uno dei gesti più rivoluzionari che possiamo compiere.

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