Musica e tecnologia

Spotify e altri appiattimenti musicali

Gli algoritmi modificano radicalmente il modo di consumare la musica, e anche di produrla. Quali saranno le conseguenze a lungo termine?

  • 2 maggio, 09:28
  • 2 maggio, 10:13
algoritmo, matematica
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Di: Michele Serra

Già nell’Ottocento in mezza Europa la saggezza popolare diceva che è meglio non “guardare il mondo attraverso lenti rosa”. Da secoli, filosofi, biologi e poeti come Dargen D’Amico insistono nel ripeterci che non c’è realtà al di fuori della mente. Oggi però un ulteriore filtro, mai sperimentato prima nella storia, si interpone tra noi, la realtà, la cultura. Non più solo sensi, personali gusti e propensioni, ma software. Sono i programmi che ci danno consigli e ci offrono nuove esperienze: chiamateli, se volete algoritmi o intelligenze artificiali. La musica che ascoltiamo dipende da loro, sempre di più.

Certo, non è solo la musica: quella degli algoritmi è un’opera di persuasione tanto gentile quanto ferma e pervasiva, che coinvolge molte delle nostre attività quotidiane. È uscita da pochi giorni la traduzione in italiano di Filterworld (ROI Edizioni), saggio scritto dal giornalista americano (scrive per il New Yorker, testata storica tra le non molte sopravissute allo tsunami di internet) Kyle Chayka, che racconta proprio quanto sia difficile sfuggire alla presenza dei suggerimenti mediati da software nel mondo contemporaneo. Il sottotitolo è Come gli algoritmi hanno appiattito la cultura, e dice molto. 

Chayka parte dai ristoranti, o meglio «quei ristorantini che si trovano nelle città di tutto il mondo, con piastrelle bianche alle pareti, molte piante in vasi di ceramica, arredi rustici di recupero in legno, lampade sospese con lampadine a filamento. […] Nel menu ci sarà probabilmente l’avocado toast.» Li trovi a Milano, ma non assomigliano ai bar italiani; a Parigi, ma non assomigliano ai cafés francesi; a Londra, ma non assomigliano ai pub inglesi; in compenso si assomigliano tutti tra loro, e assomigliano a quelli di Los Angeles, Tokyo, Bali. Un tempo i cosiddetti non-luoghi simili in tutto il mondo erano pochi, legati a particolari usi (come aeroporti e stazioni) o a grandi catene internazionali (come i fast-food statunitensi). Oggi frequentiamo un numero molto maggiore di non-luoghi senza un’identità locale, che esistono perché i loro proprietari sono stati ispirati dagli stessi social network. Le persone che si incontrano su queste piattaforme, prime tra tutte Instagram e Tik Tok, abitano in paesi lontani tra loro, eppure le loro preferenze e i loro desideri si assomigliano sempre di più, grazie al (o per colpa del) filtro di cui parla Chayka. Inutile dire che questi filtri sono ovunque: gli algoritmi ogni giorno ci suggeriscono nuovi ristoranti, prevedono cosa potremmo guardare dopo mangiato, suggeriscono perfino le parole che dovremmo usare per scrivere una mail. Il pericolo, secondo Filterworld, sta proprio nella facilità con cui ci facciamo trascinare da questi algoritmi, grazie a programmi che sono disegnati proprio per rendere comodo il loro uso, quasi inevitabile. E le piattaforme di streaming musicale sono uno dei casi in cui gli effetti dell’algoritmo sulla cultura diventano immediatamente evidenti.

Già alcuni anni fa, Maria Eriksson e gli altri accademici svedesi dietro il saggio Spotify Teardown raccontavano come le playlist di Spotify trasformassero la musica in uno strumento: utile all’azienda per raccogliere dati e vendere pubblicità mirata, utile all’utente per svolgere un compito riassunto in macrocategorie come “viaggiare”, “rilassarsi dopo il lavoro”, “allenarsi in palestra”. Musica come sottofondo audio per un’altra attività: una prospettiva a dir poco inquietante per chiunque sia cresciuto con il rock progressivo, i vinili, l’alta fedeltà. Ma quelle, si sa, sono menate da boomer.

A quei tempi – era il 2019, un’era geologica fa – almeno buona parte delle playlist dei colossi dello streaming era compilata da umani. L’idea che questi “curatori” potessero decidere quasi da soli il destino di una band sembra quasi desiderabile, oggi che Spotify sta accelerando sempre più sui suggerimenti assistiti dal software, come dimostrato dal lancio di Spotify DJ, nuovo tool che è esattamente quello che sembra: un’intelligenza artificiale che fa il lavoro che un tempo facevano i DJ radiofonici. Per carità, le playlist curate dalle intelligenze (questa parola sembra sempre sbagliata, quando la scrivo, ma continuerò a usarla lo stesso) non artificiali continuano a esistere, ma la loro importanza sembra destinata a diminuire.
Nonostante il funzionamento degli algoritmi rimanga in generale piuttosto oscuro, facendo qualche ricerca si possono trovare diversi studi che ne raccontano i meccanismi. Qui però vorrei concentrarmi sugli effetti che questi algoritmi hanno su chi, la musica, la produce e la ascolta: vale la pena metterli in fila, per capire a che punto siamo arrivati.

Giusto cominciare dalla sparizione degli album, sostituiti dalle playlist: certo, qualche artista cerca ancora di costruire raccolte di canzoni che abbiano un senso e che si possano ascoltare dall’inizio alla fine, a volte con notevole successo anche di pubblico. Ma la maggior parte dei musicisti pensa generalmente a pochi singoli. L’esperienza di ascolto di un album diventa sempre più rara, e l’attenzione nei confronti della musica sempre più breve (non è un problema solo della musica, ovviamente). Al diminuire dell’attenzione (secondo effetto) cresce (terzo effetto) l’incapacità di capire quello che si sta ascoltando, e soprattutto si abbassa il desiderio di farlo: chiunque abbia iniziato a comprarsi la propria musica prima del 2000, ricorda bene che ogni disco acquistato veniva analizzato in modo approfondito, se non altro perché altrimenti si sarebbe sprecato del denaro. Oggi, con meno soldi di quelli che servivano per assicurarsi un CD appena uscito nel 1998, l’adolescente medio si trova tra le mani tutta la musica del mondo. Un miracolo, e allo stesso tempo una condanna: chi mai potrebbe riuscire ad ascoltare tutta quella musica, e soprattutto a distinguere un file da un altro? Di fronte a una tale erculea fatica, impossibile pensare di non farsi aiutare dagli algoritmi, sempre pronti a offrire i loro suggerimenti, infaticabili, gentili. E, come prevedibile, destinati a portare l’utente verso musica simile a quella che ascolta più frequentemente. Così il filtro diventa una bolla, da cui è sempre più difficile fuggire. 

L’altro lato della questione è che i musicisti sanno bene che è necessario catturare l’attenzione di chi ascolta molto in fretta: i primi trenta secondi sono fondamentali, non solo perché le piattaforme registrano un ascolto solo se l’utente va oltre quel limite, ma anche perché sono effettivamente il tempo entro il quale, con tutta probabilità, chi ascolta premerà il pulsante skip, convinto – dall’abbondanza e dagli algoritmi – che un contenuto più interessante sia proprio dietro l’angolo. Inoltre, nell’epoca di TikTok, sono sempre di più i musicisti che cercano di progettare ogni pezzo perché abbia le caratteristiche giuste per soddisfare il misterioso voodoo dell’algoritmo della piattaforma cinese, che riesce a creare successi mostruosi nello spazio di una notte. Ma per farlo è necessario – a meno di non godere già di una rendita di posizione – ridurre lo spazio della creatività e aumentare quello dell’auto-promozione, offrire ad ascoltatori già sazi un ulteriore pezzetto di gratificazione immediata, in definitiva semplificare la propria musica, così come le case di moda semplificano i propri loghi per renderli più evidenti e riconoscibili sugli schermi dei cellulari. 

Insomma, gli algoritmi stanno cambiando il modo di fare musica quanto quello di ascoltarla. Il futuro ci dirà se qualcuno riuscirà a crackare il loro codice, o se saranno loro a modificare definitivamente la cultura che ci sta intorno, e i nostri cervelli di conseguenza. 

Dal formaggio agli algoritmi con Spoiler

Spoiler 24.04.2024, 13:30

  • Dargen D’Amico
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