Sono gli incroci delle proiezioni. Prima, si salta con uno sguardo minimale su un taxi di Teheran, guidato in incognito dallo stesso iraniano Jafar Panahi che per la terza volta bypassa così il regime del suo paese che lo perseguita impedendogli di fare film.
La folla in attesa di Nicole Kidman e Werner Herzog
Poi, parte ancora dalla Persia l’attraversata zuccherosa e patinata del deserto nel film di Werner Herzog, Queen of the Desert, con una Nicole Kidman versione Lawrence d’Arabia in gonnella. Un doppio sguardo sul Medioriente che arriva sugli schermi della Berlinale proprio mentre anche la cronaca continua a non guardare altrove.
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Così, usiamo lo stesso meccanismo-cliché di salire su un taxi per farci trasportare là dove era possibile incontrare qualcuno della comunità iranaina, ormai insediata da anni a Berlino, visto che molti sono figli della storica fuga, scatenata dalla cacciata dello Scià di Persia e dall’avvento di Kohemini. “Vi conviene andare a Kreuzberg” dice subito l’uomo al volante che per un destino bislacco è forse uno dei pochi berlinesi doc che lavora sulle classiche Mercedes gialle.
“Nella maggior parte dei casi, i taxisti sono stranieri, ce ne sono tanti iraniani, noi di Berlino Berlino siamo ormai come i panda”. Ma non fai in tempo a sospettare un risentimento che il taxista aggiunge: “del resto, Berlino è una metropoli, ho letto un sondaggio di recente dove si diceva che per la maggior parte della gente della nostra città l’Islam non è un problema”.
Nel quartiere di Kreuzberg
Fatto sta che, appena scendi, Kreuzberg ha lo stesso impatto affollato e turbinoso di sempre. Una volta era il quartiere degli immigrati turchi schiacciato come un ghetto nei pressi del muro, da molti anni a questa parte invece – potere della gentrification – è diventata zona d’attrazione effervescente e multiculturale. Ed è lì, proprio nei pressi del ristorante di specialità persiane, Safran, in Oranienstrasse, che incontriamo Armin, un uomo distinto che prima parla un po’ controvoglia poi si apre. “Sono andato via dall’Iran nel 1974, a 18 anni” racconta “mio padre voleva che studiassi in Germania, ma poi quella sosta si è protratta a lungo e non sono più tornato, perché nel frattempo c’è stata la rivoluzione islamica di Khomeini”. Una vocazione laica che si mantiene anche nel suo commento sulla vicenda Panahi, regista obbligato a non uscire più dal proprio paese e impedito a svolgere il proprio mestiere. “Non consoco bene il cinema di Panahi, ma quello che gli sta capitando è grave. Sono contento che la Berlinale continui a ospitare i film che fa di nascosto. Una bella sfida contro ogni censura”. Ed è un segno anche di quanto il Festival di Berlino voglia mantenere un suo DNA fortemente politico e impegnato. Qualcosa che tuttavia non si discosta molto dagli umori di fondo che fanno da collante alla città.
Poco in più in là, davanti a un caffè, parliamo con Gherando Ugolini, professore universitario che da anni vive a Berlino: “prendi l’immigrazione, per anni Berlino non l’ha nemmeno conosciuta. Almeno fino alla caduta del muro. A Est non arrivava nessuno e a Ovest solo i turchi. Adesso al massimo sono le nuove generazioni che tornano verso l’Islam”.
A Kreuzberg
Così, adesso, per strada puoi incontrare nonne vestite all’occidentale e nipoti invece col velo che camminano fianco a fianco. Contrasti visivi sì, ma che non sfondano verso rabbia e livori di manifetsazioni come Pegida, il movimento contro l’islamizzazione della società che a Dresda riempie le strade ogni lunedì. “Qui ci hanno provato, ma Pegida non ha attecchito” dice ancora Gherardo “alla fine nell’unica volta che si sono dati appuntamento ad Alexander Platz, non sono riusicti nemmeno ad arrivare a un corteo di cento persone, mentre le contro manifestazioni erano dieci volte più grandi. Qui, a Berlino, sono i sostenitori di Pegida che devono sentirsi stranieri”.
Lorenzo Buccella