Calais, Francia, ultimo lembo d’Europa prima del Canale della Manica. Da qui, nelle giornate limpide di fine ottobre, le costiere bianche di Dover sono visibili a occhio nudo. A ridosso di una fila di alberi piegati ai venti atlantici, incastonata tra l’autostrada per il porto e campi incolti, la “jungle”, il ghetto per migranti diretti in Inghilterra, township fatta di assi di legno riciclate che da anni pullula di viaggiatori, si prepara alla sua ultima notte.
“Il fuoco si prenderà tutto prima dell’alba”. R. ha vissuto tra questi vicoli sabbiosi per un anno, e parla senza nostalgia. Attorno al falò dove si sta scaldando insieme a un gruppo di connazionali eritrei, ragazzini senza un pelo sulla faccia, il fuoco resta un elemento simbiotico, indispensabile alla vita. “Sarà un grande spettacolo. Ma è pericoloso, resta lontano.”
Da mesi il governo francese si sfrega le mani, ansioso di capitalizzare in tempi pre-elettorali il ritorno di immagine di uno sgombero che è stato annunciato, organizzato e realizzato con la massima perizia. Al posto della jungle resterà tra poche ore solo l’immagine di una immacolata distesa di sabbia. Per chi ha vissuto da qui l’avvicendarsi delle stagioni, l’idea di partire non è una tragedia: è uno dei tanti improvvisi cambiamenti che costellano la vita da migranti, dal Mediterraneo all’Atlantico.
Fin dalla mattina migliaia di persone si accalcano nell’hangar dove le autorità definiscono le destinazioni di chi si consegna volontariamente al programma di ricollocamento. Nessuna informazione, nessun dettaglio di come sarà la vita tra poche ore: si elencano città, si parla di centri di accoglienza, di campi, di appartamenti, di illusioni. Gli autobus partono per tutto il giorno, uno dopo l’altro, lasciandosi alle spalle un silenzio plumbeo. Ma in chi parte non c’è rassegnazione, c’è curiosità per questa nuova, bizzarra esperienza, rassicurati dalla consapevolezza di qual è la vera meta di quest'epico viaggio.
Quel che resta della "Jungle"
Intanto, tra gli ultimi abitanti di un campo che per decreto non può sopravvivere all’alba, l’eccitazione sale. Come R., che cerca conforto nel falò, qualche altro centinaio di persone continua a trascinarsi tra tende e baracche vuote. Fra poche ore nessuno di loro sarà più qui: l’aria riecheggerà dal pianto delle scavatrici, venute a fare scempio delle vestigia di una vita clandestina che non merita neanche di restare nella memoria, e che pure loro non vogliono abbandonare. E così, in un mistero che solo il buonsenso può risolvere, visto che le indagini non sono neanche iniziate, l’ultima parola rimane al fuoco, elemento primitivo e possente che col suo fragore restituisce dignità a una partenza che illuminata dalle fiamme non è più una fuga.
Paolo Martino