Trentamila anime in un chilometro quadrato. Quello di Shatila, il campo profughi palestinese alla periferia sud di Beirut, è un nome impresso nella storia e legato, insieme a Sabra, all’eccidio che 35 anni fa costò la vita a circa 3’000 persone. Una nazione nella nazione. Un formicaio dove gli abitanti vivono come fantasmi. Persone che per lo Stato libanese è come se non esistessero: non hanno documenti e quindi non possono accedere ai servizi di base, come la sanità o l’istruzione pubblica. E non possono lavorare, se non in nero: braccia prestate all’agricoltura o all’edilizia.
Viviamo come sotto assedio
"È come se vivessimo sotto assedio. Le pressioni del Governo sono continue", ci spiega Kazem Hassan, segretario generale a Shatila di al-Fatah, l’organizzazione politico-militare della sinistra palestinese che governa il campo (guarda il videoreportage in cima all'articolo).
Shatila: una nazione nella nazione
Una soluzione temporanea
Cinquantacinque anni, modi garbati ma decisi, Karem Hassan è uno dei sopravvissuti al massacro del 1982. La sua è un’eloquenza silenziosa. Occhi neri e profondi, soppesa e scandisce ogni parola quando ci racconta del luogo che lo ha visto nascere, e chiede più volte alla traduttrice di riportare fedelmente quello che racconta: “Il campo è stato creato nel 1949 per accogliere i palestinesi in fuga dal conflitto arabo-israeliano. Tutti pensavano fosse solo ‘temporaneo’, ma quasi 70 anni dopo siamo ancora qui”.
Ovunque nel campo le bandiere di al-Fatah e i ritratti di Yasser Arafat e Mahmud Abbas
Il campo è vivo
Da sempre sovraffollato, con lo scoppio della guerra in Siria e l’arrivo di migliaia di famiglie in fuga da un conflitto che riecheggia a poche centinaia di chilometri di distanza, la situazione a Shatila è ormai al limite del collasso. Il campo non può essere ampliato e quindi si costruisce in altezza: piani su piani aggiunti a palazzine pronte a crollare in qualsiasi momento. Ai bordi delle strade – strette e intasate da automobili e carretti – cumuli di fango e spazzatura.
Qui, l’acqua corrente è un lusso. Le condutture idriche e i cavi dell’alta tensione viaggiano sospesi e appaiati. “Ma la popolazione non vive in uno stato di agonia”, tiene a precisare Kazem Hassan. Nonostante tutto il campo è vivo. Ci sono scuole e centri culturale e ricreativi.
Uno di questi è il Children and Youth Center (CYC). “Organizziamo attività didattiche e campi estivi e offriamo supporto psicologico ai giovani del campo”, ci spiega il coordinatore, Mohammad Abdul Latif. Gli insegnanti sono tre e lavorano a pieno ritmo: “Praticamente 24 ore al giorno”. Il CYC vanta pure una formazione di Dabke (danza tradizionale palestinese) e due squadre di calcio, una maschile e una femminile.
Il campo profughi palestinese di Shatila in immagini
Mentre usciamo da Shatila, incrociamo lo sguardo di una famiglia radunata in un garage. A Shatila una singola stanza è di norma condivisa da almeno cinque persone.
Tornare a casa
Nel paese dei cedri, un palestinese può trovare lavoro solo nell’economia sommersa, guadagnando al massimo 1’500-2'000 dollari all’anno, ovvero l’equivalente dello stipendio mensile medio di un lavoratore libanese. Solo i più istruiti, una minima parte, riescono a trovare un’occupazione in seno alle ONG. Altri, invece, senza più prospettive, scelgono di percorrere la strada dell’islamismo radicale.
Siamo stati abbandonati
“Le istituzioni ci hanno abbandonati e anche le organizzazioni internazionali non fanno abbastanza”, spiega Kazem Hassan che, poco prima di salutarci, aggiunge: "Dobbiamo continuare a resistere. Perché presto torneremo a casa".
Ludovico Camposampiero