Nella notte tra l’1 e il 2 luglio scorsi, parte della tendopoli di San Ferdinando, in Calabria, è andata a fuoco. Ora la prefettura di Reggio Calabria sta allestendo un nuovo campo, fatto di container, in un’area poco distante. Ormai è questione di giorni. Lo sgombero dovrà essere completato entro la fine di luglio.
Sono circa 150 i migranti che hanno perso tutto: vestiti, soldi, documenti, telefoni cellulari e contatti di lavoro. Da circa tre settimane vivono in un capannone industriale, gestito dalla Protezione civile. Una brandina al suolo. E un braccialetto rosso al polso, per essere riconosciuti all’ingresso.
La tendopoli di San Ferdinando è la più grande d’Italia, dopo lo sgombero, a marzo, di Gran Ghetto, la bidonville dei raccoglitori di pomodoro, a Rignano Garganico, in provincia di Foggia. In totale, ad oggi, l’accampamento calabrese ospita circa 700 migranti. D’inverno esplode giungendo a contenerne oltre 2000 persone. Altri 1500 vivono tra fabbriche abbandonate, case diroccate, inghiottite dalla campagna e un altro campo container, poco distante dalla zona industriale di San Ferdinando. Accorrono per la raccolta delle arance. Vengono da quasi tutta l’Africa occidentale. La situazione è insostenibile. Le tende al sole si arroventano, con gli oltre 35 gradi del pomeriggio estivo. Attorno nemmeno un albero. Un paio di gabinetti maleodoranti e tre docce improvvisate, coperte di lamiera, sono i soli presidi igienici esistenti.
Sgombero all'orizzonte per i braccianti di San Ferdinando
Qui i migranti africani lavorano quasi tutti a chiamata e senza contratto. La paga è di un euro per ogni cassetta di arance raccolte. Alla fine della giornata, il salario medio non supera i 25 euro. Da questi vanno detratti i soldi per il servizio di trasporto abusivo, gestito dai caporali. Tre euro per l’andata e altrettanti per il ritorno.
Nel gennaio del 2010, nella vicina Rosarno, le precarie condizioni di vita e di lavoro avevano spinto i migranti africani a protestare in strada. La rivolta aveva scatenato la reazione violenta di alcuni dei residenti della Piana di Gioia Tauro.
Gilberto Mastromatteo