DIARIO PUNTATA TRE
Caro diario, se sei d’accordo oggi sarei orientato sul verde. Ti va? Non tanto perché significa speranza, ma perché ricordo vagamente da qualche lezione di storia dell’arte che nel rinascimento era il colore delle giovinette. Queste qui che siamo andati a trovare oggi sullo schermo hanno meno la pancina tonda rispetto a quelle botticelliane. Sono ragazze moderne, anche se una delle due recita in costume.
All'inizio anche in un bel vestito verdone delle Belle Époque. Tocca andare a trovarla nella provincia francese di fine ottocento, Léa Seydoux. Quella che se ti ricordi, caro diario, avevamo battezzato imminente superstar già quando l’abbiamo incontrata qui qualche anno fa, in jeans e muso da ragazzina. Troppo facile. Il film era L’enfant d’en haut, dove faceva la mamma-sorella senza giudizio e con tanto appeal sui maschi. L’anno scorso sempre qui era la Bella insieme alla Bestia Cassel. Questa volta si porta dietro il solito sorriso enigmatico coi denti separati fin nel 1890. Diario di una cameriera. Roba difficile, perché già messa in cinema da Renoir e Buñuel.
L'attrice francese Léa Seydoux
Qui la Célestine di Benoît Jacquot (uno che piace tanto a Olivier Père: lo portò in Piazza Grande con Au fond des bois) sotto gli abitini spesso dimessi da serva di casa è una dura di quelle vere. Usa corpo e smorfiette per orientare il destino suo e degli altri, assediata dalle brame di padroni anziani e tormentata dai soprusi delle loro mogli. Di speranza non ce ne sarebbe tanta, per lei, nella storia scritta da Mirbeau, ma riesce a ritagliarsela facendo di necessità virtù. La regia del Jacquot, tutta tremolante e piena di movimenti incongrui da soft-horror di inizio anni ’70, meriterebbe schiaffi sul tappeto rosso (uno di quei sogni ad occhi aperti dello spettatore, alla Amici miei ), ma in fondo la materia resta tanto avvincente, questo mondo antico di provincia visto dalla parte di chi ubbidisce, che pure un remake non necessario ti tiene lì incollato. E tra l’altro, caro diario, come potrei parlar male di un film che si intitola così?
Il regista di Victoria Sebastian Schipper e l'attrice spagnola Laia Costa
Si è detto, inizio festival tutto al femminile. Lo hanno evidenziato praticamente tutti dopo le cavalcate (trionfali?) di Binoche e Kidman. Oggi però davvero si butta giù un po' la lancetta generazionale, perché dopo essere entranti nelle stanze della servitù con la camerierina Léa, finiamo in discoteca con la soave Victoria, spagnola dolce di Madrid che all'inizio del film si gode la psichedelia berlinese (in generale, una nota di biasimo andrebbe inviata a casa a quei registi che mettono più di trenta secondi di unz unz unz e gente che balla nei loro film). Poi alle quattro di mattina usciamo per strada insieme a lei, a prendere la bici per tornare a casa. La vediamo incontrare quattro locals ciucchi traditi: Sonne, Blink, Boxer, Fuss, nomi da film di Spike Lee. Decide di non mandarli a quel paese e anzi si mette a andare a zonzo con loro. "Veri berlinesi", come si definiscono. Parte una titubante e poi bellissima storia d’amore potenziale. Ti intenerisci pure. Poi tutto vira in una specie di versione berliner di Romanzo criminale. Andiamo a svaligiare una banca, dai, che la notte finisce presto e qualcosa di pazzo tocca farlo. Furto che finisce malissimo per tutti, salvo per lei: Victoria esce dal film a testa alta, camminando di schiena, nel primo mattino di una città che si sveglia, con un sacchetto di banconote in mano. Idealmente a braccetto con Léa-Célestine. Pure lei lascia il posto di lavoro e dà la schiena al film verso nuove avventure. Con in saccoccia l’argenteria di Madame. Linea verde, ma non al verde.
Leggi anche il blog berlinese di Lorenzo Buccella.
Oggi abbiamo visto Diario di una cameriera di Benoît Jacquot e Victoria di Sebastian Schipper, in concorso alla Berlinale
mz