Cinema

Robbie Williams è un uomo migliore (del film)

Arriva nelle sale “Better Man”, il musical biografico sull’ex-Take That

  • 12 gennaio, 08:58
  • 13 gennaio, 09:55
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Di: Michele Serra 

Nell’Inghilterra del 1991, una boy band della zona di Manchester cercava di farsi notare nel mondo del pop. Cinque ragazzini, il più vecchio aveva 23 anni, provavano a diventare i New Kids on the Block britannici.

Il loro primo singolo si intitolava “Do What U Like”: nel video, girato con un budget risicatissimo, apparivano seminudi e cosparsi di gelatina. Esistono due versioni di quel video: in quella più esplicita, destinata alla fascia televisiva di tarda serata, alla fine della canzone i Take That rimanevano completamente senza vestiti. Negli ultimi venti secondi sono sdraiati uno di fianco all’altro, sulla pancia, mentre una modella ripulisce loro le terga con uno scopettone. «È stato lì che ho perso la dignità», ama ricordare Robbie Williams quasi trentacinque anni dopo.

Ai tempi di “Do What U Like” aveva diciassette anni, che è un’età in effetti piuttosto acerba per pensare alla dignità. (A me viene da pensare, piuttosto, a quanto sia inquietante promuovere musica pop con immagini di minorenni nudi, ma forse sono io troppo puritano, forse i tempi che viviamo sono più bacchettoni. In ogni caso, non è questo il punto).

Better Man” gira per due ore intorno al tema della dignità, o meglio, ad alcune domande ad esso legate: quanto in basso sei disposto a scendere, per ottenere fama e denaro? C’è una correlazione diretta tra il successo e l’autodistruzione? Costruire un grande personaggio pop, significa necessariamente distruggere una persona?

Il film racconta la vita di Robbie Williams, nell’ordine membro più giovane dei Take That, causa primaria dello scioglimento della band, solista capace di fare numeri ancora più enormi dei suoi ex compagni, quintessenziale star britannica, tossicodipendente (questa forse andava messa prima).

Ma Robbie, in due ore, non compare mai sullo schermo. O meglio, al suo posto vediamo una scimmia digitale. Già: mai, neanche per un secondo, “Better Man” mostra il volto del suo protagonista, o di un attore che lo impersona. Robbie Williams è, per lo spettatore, uno scimpanzé (che tecnicamente non è una scimmia, perdonate l’imprecisione, ne sono consapevole). Il primate è costruito interamente con la grafica digitale, “applicata” sui movimenti dell’attore trentaduenne Jonno Davies, motioncapturato per l’occasione.

26:31

Scimmie. Insieme. Canta.

Il divano di spade 11.01.2025, 18:00

  • Michele R. Serra

L’idea è nata da una conversazione tra Robbie Williams e Michael Gracey, regista del film: Robbie gli aveva raccontato di quante volte si sia sentito (o sia stato, più letteralmente) trascinato sul palco per esibirsi, «come una scimmia ammaestrata». Gracey ha trasformato quello spunto nell’architrave della sua pellicola, riuscendo a imporre alla Paramount Pictures una scommessa che, da qualsiasi parte la si guardi, non può che risultare piuttosto coraggiosa. In anni in cui l’avversione al rischio da parte degli studios hollywoodiani è massima – con la concorrenza agguerritissima delle multinazionali dello streaming e dei videogame, nessuno può permettersi di sbagliare – risulta confortante pensare che ci sia ancora spazio per scelte creative anticommerciali: se è vero infatti che qualsiasi popstar offre al pubblico la sua immagine e il suo corpo insieme alla sua musica, nel caso di Robbie Williams gli elementi del bundle offerto al consumatore finale non sono, in alcun caso, vendibili separatamente. In questo più che in altri casi, rimuovere il corpo della star dallo schermo risulta un vero azzardo. Però è un azzardo che inizialmente paga: nonostante la mancanza di una vera sorpresa – impossibile, nell’epoca dei social network, non essere esposti almeno alla visione di un trailer prima di entrare in sala – la storia del giovane scimpanzé figlio della working class di una piccola cittadina dell’Inghilterra centrosettentrionale risulta più interessante proprio per la stranezza estetica del suo protagonista. Sfortunatamente, non dura. Ma su questo torno tra qualche riga.

Come capita in altre opere simili, non necessariamente cinematografiche (penso ad esempio a uno dei graphic novel fondamentali dell’ultimo ventennio americano, quell’“Ombelico infinito” il cui protagonista ha le fattezze di una rana in un mondo di umani), gli altri personaggi non “vedono” la scimmia e non ne parlano: la metafora visiva esiste solo per lo spettatore.

A proposito di metafore: la “scimmia” indica, in italiano come in inglese, una dipendenza da sostanze stupefacenti. Anche se l’espressione non è così diffusa sul suolo britannico da far pensare che si tratti di un riferimento diretto, è un secondo livello di significato molto aderente alla storia raccontata dal film, quella di un musicista ricchissimo che fa un uso smodato delle succitate sostanze. Quindi, dicevo, la scimmia è adatta, utile, e rende i primi dieci minuti di visione piuttosto sorprendenti. Poi però, tutto ricade nel già sentito. 
Non che avessi grande fiducia nelle capacità di Michael Gracey, regista noto per averci regalato “The Greatest Showman”, il film in cui il leggendario impresario circense P.T. Barnum – nella realtà semplicemente l’avido sfruttatore di un freak show – risultava praticamente un pioniere dell’inclusività, che combatteva abilismo e body shaming nella New York degli anni Trenta (giuro!). Lì almeno c’era Zendaya con la parrucca rosa, qui c’è solo la solita storia del signor nessuno che diventa una star, ma cade nell’abuso di droghe e sesso. Perché? Perché è depresso a causa di un trauma personale legato al rapporto con il padre.

Le star sopravvissute agli eccessi della gioventù («A sedici anni ho iniziato a prendere droghe e a bere. A diciassette, diciotto anni è diventato un problema. A diciannove sapevo anche io che era un problema», nelle parole dello stesso Robbie Williams) amano descriverli come terapia per un qualche incolmabile vuoto esistenziale: mai nessuno – e mai nessun film – che dipinga i succitati eccessi come un passatempo capace di offrire grandi piacevolezze immediate, che non fanno pensare alle conseguenze a lungo termine sulla salute.

Anche la descrizione della sex addiction, parte nota della biografia di Robbie, ma tutto sommato poco esplorata, è appena accennata. Sarà che il tema è ancora considerato poco adatto a un prodotto mainstream (ma non ero io, il puritano?), e in effetti “Better Man” sembra soprattutto l’ennesima reiterazione di uno dei pochi prodotti del cinema mainstream che hanno funzionato piuttosto bene negli ultimi anni: la biografia musicale. “Bohemian Rhapsody” ha ricostruito scena per scena alcune delle esibizioni più leggendarie dei Queen, “Rocketman” ha costruito un musical fatto di visionari effetti speciali intorno alla carriera di Elton John: “Better Man” fa entrambe le cose, spingendo al massimo il piede sull’acceleratore. Così, a Michael Gracey non basta ricreare i concerti di Knebworth del 2003: lì si deve svolgere anche un epico scontro tra scimpanzé digitali, a metà tra “L’alba del pianeta delle scimmie” e “Il trono di spade”. È, in fondo, la stessa tecnica usata da Robbie Williams per costruire la sua carriera musicale: fare sempre rumore, produrre distrazioni capaci di mantenere alto l’interesse del pubblico e far distogliere lo sguardo da un prodotto (musicale) che forse non è all’altezza del successo sperimentato (tra i settanta e gli ottanta milioni di copie vendute, cifre pari a quelle di gente come Police e Oasis). Quindi, il film non fa altro che riproporre lo stesso dilemma, lo stesso di cui Robbie parla molto spesso nelle sue canzoni: Robbie Williams è una star, o la più grande truffa del pop?

Certamente “Better Man” non vi farà cambiare idea, se pezzi come “Feel” e “Angel” vi provocano attacchi di orticaria da vent’anni a questa parte. Se invece apprezzate il carattere istrionico (perdonate la parola, ma rende l’idea) di Robbie Williams, fatto di quel particolare mix di egotrip, contraddizioni e improbabili insicurezze che ormai siamo abituati ad associare alle star (lo so, anche questo è un cliché), probabilmente godrete nel vedere confermata su schermo questa narrazione.
È difficile voler male a Robbie Williams, ragazzo senza particolari talenti riuscito a toccare il cielo del pop inglese, stella capace di regalare al pubblico momenti genuinamente divertenti, che si tratti di gridare «Sono ricco! Più che nei miei sogni più assurdi!» davanti alle telecamere dopo aver firmato un contratto con la EMI, oppure di sfidare pubblicamente Liam Gallagher a fare a pugni durante i Brit Awards. Per non parlare della sua passione per gli ufo, naturalmente.
Anche chi non apprezza le sue doti artistiche, probabilmente si divertirebbe a farsi raccontare qualche aneddoto della sua rutilante vita, in una serata al pub. Purtroppo, proprio della realtà e dei particolari di quella vita rimane poco, nel fracasso di “Better Man”. È uno dei rari casi nella carriera di Robbie Williams in cui, effettivamente, era meglio la canzone.

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