Grazie al movimento #metoo sorto nel 2017 e in seguito al lavoro delle attiviste di SlutWalt, secondo le statistiche del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti oggi lo stupro è il crimine violento più sottostimato. Le sopravvissute temono che le giurie credano ai colpevoli e che denunciando potrebbero subire ulteriori danni fisici, economici o sociali.
In Svizzera la situazione non è molto diversa. Uno studio condotto dalla GfS Bern Institute per Amnesty nel 2019 ha rivelato che il 22% delle donne di età superiore ai 16 anni ha subito atti sessuali non consensuali e il 12% ha avuto rapporti sessuali contro la propria volontà. Su 4.500 donne svizzere vittime di violenza sessuale solo l'8% ha sporto denuncia alla polizia. Sempre in Svizzera nell'ambito della riforma del diritto penale sessuale Amnesty International ha fatto passare recentemente "No vuol dire no". Questo iter revisiona gli articoli 180 e 190 del Codice Penale includendo lo stato di choc da parte della vittima, modernizzando il diritto penale sessuale, fornendo una maggiore protezione dell'autodeterminazione sessuale e migliorando la situazione per le molte vittime di violenza sessuale.
Osservando questi dati risulta chiaro che viviamo in una società dominata dalla rape culture. La cultura dello stupro affonda le sue radici in una società di natura patriarcale e in un sistema di giustizia penale fallace. Una cultura che tende a creare una sorta di mito dello stupro, normalizzare e "giustificare" lo stupro o qualsiasi tipo di violenza sulle donne".
Questo fenomeno include e autorizza anche una serie di atteggiamenti, norme e tendenze, da parte dei media, volti a minimizzare e/o incitare alla violenza sulle donne. Sintomi strettamente legati alla cultura dello stupro sono il victim blaming (colpevolizzazione della vittima), l'oggettivazione sessuale e lo slut shaming (stigma della sgualdrina). Frasi come “era ubriaca”, “indossava una minigonna troppo corta”, “se l’è cercata” fanno parte del linguaggio comune senza che ne venga messa in discussione l’origine maschilista e misogina.
Il concetto di cultura dello stupro viene introdotto negli studi di genere e nella letteratura post-moderna dopo la seconda ondata femminista negli Stati Uniti. La prima volta che si vede usare il termine è nel documentario del 1975 realizzato da Margaret Lazarus “Rape Culture”, che esamina la relazione tra fantasie sessuali e rappresentazione dello stupro nell’industria cinematografica, musicale e in altre forme di intrattenimento.
Nel ’93 viene fornita una definizione più estesa del concetto da P. Fletcher, E. Buchwald e M. Roth autrici del libro Transforming a Rape Culture, che lo definiscono come un complesso di credenze che incoraggia l’aggressività sessuale maschile normalizzando il terrorismo fisico ed emotivo insieme ad una costante minaccia di violenza attraverso l’adozione di un lessico misogino e l’oggettivazione sessuale dei corpi femminili da parte dei media.
Oggi la rape culture è intrinsecamente collegata al fenomeno di vittimizzazione della donna. Il sistema giudiziario mette costantemente in dubbio la credibilità della vittima, rendendola spesso oggetto d’indagine e “vittimizzandola” una seconda volta.
La giudice italiana Paola di Nicola ha affermato che la violenza sessuale è “l’unico delitto che, in tutto il mondo, ha come principale sospettata la vittima” in quanto questi pregiudizi e stereotipi risultano essere condivisi dal contesto sociale e culturale. Infatti il victim blaming che si traduce in un certo tipo di linguaggio riferito alla vittima, scaturisce dal pensiero che la valutazione del danno è frutto della convinzione che si tratti di un evento meritato.
Durante i processi viene infatti chiesto a chi ha esposto denuncia il tipo di abbigliamento indossato in quel momento, la strada percorsa, l’orario d’uscita, il numero di partner sessuali avuti nella vita. Tutte domande che riversano sulla donna la responsabilità di ciò che le è accaduto. Le vittime vengono guardate con diffidenza e raramente dopo il processo gli stupratori scontano una condanna che rifletta la gravità dei loro crimini, anzi spesso finiscono per patteggiare o venire persino assolti. Questo nonostante uno studio svolto nel 2010 abbia dimostrato che soltanto tra il 2 e l’8% delle accuse di stupro sono false.
I fatti di cronaca ne sono un costante esempio. Basti pensare all’assoluzione del ventenne dall’accusa di violenza sessuale su una coetanea da parte della Corte d’appello di Torino avvenuta nel 2022. La ragazza “un po’ sbronza” si era fatta accompagnare dall’amico alla toilette lasciando la porta socchiusa e questo è bastato ai giudici per ritenerla una forma di “invito a osare” e “mancanza di elemento soggettivo”. Il victim blaming rientra quindi nella rape culture come una pratica influenzata dalla tendenza a semplificare e a categorizzare, in uso nei media e in ambiti istituzionali (nei servizi sociali e sanitari e, come visto, anche nel sistema penale).
Il ruolo dei media può risultare preoccupante in quanto spesso l’unica fonte di informazione per la popolazione avendo quindi il potere di influenzarne il pensiero e l’opinione pubblica. L'oggettivazione del corpo femminile da parte dei media, sminuendo la donna a un oggetto sessuale, è una costante che plasma così una società che ignora i diritti e la sicurezza delle donne. Ciò che non si considera spesso è il vocabolario utilizzato nel riportare casi di cronaca. Troppo spesso i media si servono del “linguaggio dello stupro” descrivendo femminicidi, violenze, eventi criminosi, con termini che veicolano messaggi pericolosi come “accarezzare” o “amore primitivo”.
Anche la spettacolarizzazione della violenza sessuale ne è stato un sintomo, non è necessario arrivare a parlare di pornografia, è facile vederla nelle fiction, nei film, nelle pubblicità di marchi di alta moda. Facendo un passo oltre, il ruolo dello stupratore è spesso stato rappresentato da uno sconosciuto che spunta da un vicolo e assale la malcapitata. Una rappresentazione non sempre sbagliata, ma potenzialmente dannosa perché è stato dimostrato che il 73% delle aggressioni è in realtà commesso da un conoscente della vittima, come il partner, l'ex partner o un parente stretto. Inducendo il pensiero che il vicino, il padre o l’amico non potrebbero mai violentare qualcuno.
I media tendono a ritrarre in modo fuorviante anche le vittime di violenza sessuale, di solito descritte come “bugiarde, iper-sessuali“, colpevoli spesso di aver “provocato”, in qualche modo l’abuso con comportamenti “carini” e “civettuoli”. Si costruisce, così, una pericolosa cornice di vittimizzazione mediatica all’interno della quale vengono forniti consigli alle donne su come evitare lo stupro attraverso una lista di “regole comportamentali” da seguire, invece di educare gli uomini.
La prima regola sarebbe se possibile uscire sempre in gruppo, non essere mai sole la notte, non lasciare mai il proprio drink incustodito e se sole, camminare con le chiavi in mano. Tutti suggerimenti che danno alla donna la responsabilità personale di scongiurare una possibile aggressione sessuale, invece di evidenziare il vero problema.
Combattere la rape culture è difficile, ma possibile. È importante sottolineare che non si tratta di una guerra tra generi e che questo tipo di mentalità può essere combattuta anche e soprattutto dagli uomini. Come? Ascoltare le storie delle vittime senza contestarle, parlare di consenso insieme ad amici e conoscenti, intervenire laddove ci siano atteggiamenti stupidi e misogini, evitare di rispondere “non tutti gli uomini sono così”.