Il 15 ottobre 2017 l’attrice statunitense Alyssa Milano twitta #MeToo e in poche ore è condivisa sul social da milioni di utenti.
Il suo messaggio era un appello e un invito, a tutte le donne, a non tacere sugli abusi subiti. «Non si tratta di un raro esempio. È una cultura malata. Uomini come Harvey Weinstein si trovano a ogni angolo». Un’accusa troppo forte, addirittura estrema per alcuni, doverosa e opportuna per altri.
Il vaso di Pandora era stato aperto, difficile tornare indietro, pure auspicabile non farlo, ma l’impressione fin da subito è che il cambio culturale evocato, tanto atteso e auspicato, non fosse in realtà per niente facile. «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo» così dice Qoelet.
C’è un tempo per tacere e uno per parlare. Era giunto, di nuovo, il tempo per parlare, questo è certo, ma come farlo?
Man mano che si andava avanti con le denunce e le accuse pareva che quell’hashtag, alla fine del 2017 e nel corso del 2018, diventasse sempre più pesante e che rischiasse di trasformarsi in un pericoloso boomerang per tutte e tutti coloro che auspicavano un cambio culturale, contrassegnato dalla convivenza pacifica, rispettosa delle specificità di ciascuno, più che una guerra tra i sessi.
Filippine, 8 marzo 2018
A quel cambio culturale hanno guardato, cinque mesi dopo, le diverse manifestazioni dell’8 marzo 2018.
In occasione della Giornata internazionale della donna un po’ in tutto il mondo si tornava a parlare con ridestato orgoglio di mobilitazione femminista.
In Spagna 5,3 milioni di donne sono scese in piazza e hanno gridato il loro no alla violenza. L’hashtag da #metoo è andato trasformandosi in #wetoogether e l’ondata sembra aver cambiato segno invitando tutti, donne e uomini, ad unirsi per dire no, in ogni luogo - sul posto di lavoro, in famiglia, nella politica, nei vari contesti delle religioni, per la strada - ad ogni forma di violenza, prevaricazione, di sessismo e di misoginia.
Il potere dei social, la forza degli hashtag, hanno reso possibile, nel corso del 2018, ciò che prima sembrava impossibile: hanno dato forza ad un dissenso, fino a quel momento ridotto al silenzio da minacce più o meno esplicite. E hanno anche soffocato le ritorsioni, sempre in agguato per chi denuncia, in un mondo chiuso e involuto, ma avido di privilegi, come quello di Hollywood, dando l'impressione che, a partire da lì, da quel singolo hashtag, qualcosa poteva cambiare un po' ovunque, per sempre.
Giulia Blasi, Un anno da #quellavoltache, intervista di J. Arlin e A. Veronelli
RSI Cultura 11.10.2018, 14:37
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Prima di #metoo (divenuto #quellavoltache in area italofona) si può dire che la esplicitazione di emozioni negative, ansie e sofferenze conseguenti ad attacchi sessuali ed abusi, era pericolosamente considerata quasi indicibile, nella vita civile, come nella sua amplificazione sui social, se non addirittura inudibile, inascoltabile.
Al principio fu al Letterman
Era il 1998 quando Gwyneth Paltrow in un’intervista allo show di David Letterman ebbe, tra il serio e il faceto, ebbe l’ardire di affermare che quel notissimo produttore di Hollywood «può obbligarvi a fare cose». Va ricordato che l’hashtag Metoo non è nato con lo scandalo Weinstein, ma che è stato utilizzato per la prima volta nel 2006 dall’attivista afroamericana Tarana Burke per aiutare le giovani donne nere, sopravvissute ad abusi, assalti sessuali e sfruttamento, a denunciare e a dichiarare pubblicamente: “non sono sola e non mi nascondo”. E ancor oggi la forza del #metoo sta nel dichiarare:
Non dobbiamo vergognarci di essere diverse, di essere complementari agli uomini, di essere donne. Vogliamo essere ascoltate, comprese, rispettate e amate in quanto donne. Rifiutiamo il patriarcato e la misoginia che ci vuole sottomesse e subalterne.
Subalterne si nasce?
Quale termine meglio di “subalternità” può spiegare il rapporto tra uomo e donna alla base dello scandalo che ha investito il mondo di Hollywood? Una subalternità che, va riconosciuto, non è di casa solo a Los Angeles. I media (elettronici e no) dedicano titoli d’impatto, articoli, trasmissioni per denunciare violenze, molestie e sopraffazioni di ogni tipo, che le donne continuano a subire, all’interno del contesto famigliare, come nel mondo del lavoro.
Lascia sbigottiti l’ingenuo tentativo di liquidare il problema con la onnipresente intervista alla psicoterapeuta, una donna è più politicamente corretto, evitando però di ammettere che il problema non è nella psiche. Il problema è nel sociale e nelle trasformazioni antropologiche cui stiamo assistendo. In questo senso è una preoccupazione che dovrebbe trovare posto nell’agenda politica. E non è solo un problema Hollywoodiano, Occidentale, Africano o Asiatico, il problema è endemico ed è globale. Il problema è storico, si chiama patriarcato, e si declina con l’oggettificazione sessuale del corpo delle donne, con il sessismo, e con quel genere di sessismo che produce misoginia.
#MeToo movement, Asia Argento. Roma 8 marzo 2018
Misoginia fa rima con cinematografia, ma anche con editoria
Lo scandalo scoppiato nel mondo dorato di Hollywood e che ha mietuto vittime tra volti noti ed invidiati di attrici bellissime, fa parlare, fa discutere, fa anche vendere, ma non può non occupare i produttori di notizie. Importante rimane però il parlarne nel modo giusto, con rispetto verso le vittime. E forse la categoria dei venditori di notizie dovrebbe chiedersi se è stato usato l’approccio giusto, considerato ad esmpio che Asia Argento, ha dovuto abbandonare il suo paese, l’Italia, dove, ha dichiarato: «Il clima di tensione è pesante su me e sulla mia famiglia». E così se ne è andata in Germania, per “respirare”. Ma se non lasciamo respirare le vittime, come potremo mai curare, estirpare, quel male che si è abbattuto su di loro?
«Per anni - ha dichiarato nei giorni della denuncia Asia Argento - a causa del fatto di non essere riuscita a scappare, di non aver avuto il coraggio di denunciare, mi sono sentita in colpa. Ci ho messo tantissimo tempo anche a dirlo a mia madre. Mentre a mio padre e a mia figlia l’ho detto solo ora».
Quanto rispetto, considerazione e ascolto bisogna offrire a queste persone, si chiamino Asia Argento o siano la nostra collega o la nostra vicina di casa, vittime di violenze che negano i diritti della persona? Ma soprattutto quanto finalmente ognuno di noi deve sentirsi pervadere dal desiderio di metter fine a tutto ciò? Ognuno, nel suo piccolo?
Misoginia fa rima con tecnologia
Nell’agosto 2017 abbiamo avuto un amaro assaggio di maschilismo nella Silicon Valley. Google si era trovata molto in imbarazzo di fronte ad un documento di 10 pagine nel quale un suo ingegnere sosteneva che le donne contribuiscono a indebolire il settore tecnologico per motivi biologici, sostenendo che gli uomini sarebbero più adatti a ricoprire ruoli tecnici e di leader. Affermazioni subito diventate virali nei social network, definite sessiste dai media americani e l’azienda di Mountain View si è trovata costretta a licenziare l’incauto ingegnere.
Anche il CERN di Ginevra si è trovato costretto a sospendere un ricercatore, sottoposto ad inchiesta interna, per aver dichiarato in sostanza che la fisica è roba da uomini e che le donne starebbero occupando sempre più posti in un mondo che rimane comunque prevalentemente maschile, ma non grazie alle loro capacità, quanto per motivi politici legati alla parità dei sessi.
Sospeso ricercatore sessista, Notiziario delle 20:00 del 01.10.2018
RSI Cultura 11.10.2018, 15:01
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Ma possiamo davvero dire di non avere mai assistito, nel nostro piccolo contesto lavorativo, ad un comportamento sessista pari a quello accaduto nell’azienda di Mountain View o a Ginevra?
Personalmente ricordo un’amica che una decina d’anni fa, appena assunta in un settore legato alle nuove tecnologie, mi raccontò dell’imbarazzo che le aveva suscitato il suo capo che, convinto di farle un complimento, aveva affermato in apertura di una riunione che era molto contento di come stava lavorando, che aveva risolto parecchi problemi tecnici egregiamente, malgrado fosse una donna. Lei, come Asia Argento, non ebbe la forza di reagire, ma non reagirono neanche le sue colleghe e i suoi colleghi presenti. Si fa in fretta a sdoganare la misoginia.
Misoginia fa rima con filosofia
C’è chi sostiene che la filosofia abbia veicolato contenuti sessisti più di ogni altra disciplina e che il suo evitare di prendere posizione chiara sul modello patriarcale, universalmente proposto, non abbia giovato al disvelamento di attitudini sessiste e misogine portate avanti al suo interno. Aristotele nella sua teoria politica afferma che l’uomo è un animale fornito di Logos, quindi un animale politico. Lui è il cittadino della polis e il padrone in casa sua, di sua moglie e dei suoi schiavi.
Non ci stupiamo quando la pensatrice femminista contemporanea Gayatri Chakravorty Spivak, della Columbia University, fondatrice dell’Istitute for Corporative Literature and Society, riprende la categoria gramsciana dei subalterni, nel suo saggio: Can the Subaltern Speak (1988) e la applica alle donne. Sostenendo che la discriminazione di genere rende le donne subalterne e che è da questa condizione che occorre uscire. Difficile farlo se non con un cambio radicale di mentalità e modelli educativi.
Misoginia fa rima con genia
Noi cinquantenni di oggi che abbiamo avuto, non tanto le madri, quanto le sorelle maggiori che ci appoggiavano sul comodino Noi e il nostro corpo, testo mitico dei primi anni ’70 del Boston Women’s Health Book Collective, come lettura obbligata per mettere fine all’oscurantismo sul nostro corpo, viverlo e autodeterminarlo. Noi che pensavamo che quello fosse il libro di testo dell’inizio di una nuova era per le donne e per l'umanità intera, non ci capacitiamo che proprio la nostra generazione possa aver preso un granchio tanto grosso.
Misoginia fa rima con malia
Sembriamo proprio come dentro un incantesimo. Sappiamo tutti da che parte bisognerebbe andare, ma non riusciamo ad andarci davvero, tutti insieme, per il bene comune. Ci ritroviamo sempre e di nuovo, negli uffici come nelle nostre case e alla fine anche dentro di noi, a fare i conti con sessismo e misoginia che escono da ogni buco, da ogni anfratto.
La lotta contro il sessismo e la misoginia, la lotta contro la violenza sulle donne, assomiglia molto alla lotta contro il razzismo negli anni sessanta negli Stati Uniti d'America. Nel 1960 un gesto forte del governo, in Lousiana, garantisce l'accesso alla scuola ad una bambina di sei anni, Ruby Bridges. Quattro agenti, marshall federali, scortano alla sua scuola elementare la piccola Ruby, garantendole l'incolumità e l'accesso all'istruzione, riconosciuto come diritto fondamentale.
Sradicare il razzismo dalla società statunitense è questione ancora lungi dall'essere risolta, ma di certo quella decisione governativa fece fare un grande salto evolutivo alla società statunitense dell'epoca e aiutò la causa dei neri d'America, una lotta dura e anche fratricida talvolta. «Il pensiero suprematista bianco sta anche dentro ai neri» ebbe a dire la grande scrittrice Toni Morrison, premio Nobel per la letteratura nel 1993.
Credo che il pensiero sessista e misogino si comporti in modo assai simile. Sta dentro di noi e finché rimane lì ha il pass d'accesso alle istituzioni, alla famiglia, al mondo del lavoro, può andare ovunque. Iniziare dalla denuncia delle discriminazioni, violenze e ingiustizie subite è il primo passo che tutte noi donne dobbiamo poter fare. Alle istuzioni sta poi il compito di punire e sorvegliare con severità. Ma il lavoro dentro di noi, tocca a noi farlo, a noi tutte e tutti.
Partire dalle parole che usiamo per raccontarci e raccontare il nostro mondo interiore è una buona strada per stanare ogni concetto sessista, per farlo uscire da dove si annida indisturbato.
La sociologa Graziella Priulla parla del rapporto tra il corpo e il potere, nel suo saggio La libertà del corpo delle donne (Settenove, 2016), ma è illuminante quanto scriveva in C’è differenza – Identità di genere e linguaggi: storie, corpi, immagini e parole (Franco Angeli, 2013):
«Se oggi rivolgere commenti razzisti, come i riferimenti al colore della pelle in termini volgari, crea finalmente scalpore rispetto a decenni fa, lo stesso non si può dire per epiteti sessisti. “Che bella gnocca” non fa scandalo. “Negro” sì. La stessa cosa per le differenze di classe. Non si dice più “serva” per la collaboratrice domestica, o “monnezzaro” per l’operatore ecologico, ma pare normale dire “È passato un bel culo”».