Società

Cervelli strani e dove trovarli

Aumentano le diagnosi di autismo, ADHD, DSA anche in età adulta. Cos’è la neurodiversità? E la neurodivergenza? Perché sempre più persone cercano una diagnosi?

  • 22 aprile, 08:47
ADHD
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Di: Elena Panciera 

So che devo scrivere questo articolo da settimane. Come al solito, ho rimandato fino all’ultimo. Ma ora so che non sono pigra o disorganizzata. Ho l’ADHD.

Qualche settimana fa ho ricevuto la diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e alto potenziale cognitivo. Ho deciso di intraprendere il percorso diagnostico dopo aver studiato molto, aver cambiato psicologa, e aver avuto innumerevoli conversazioni con decine di persone neurodivergenti: autistiche, ADHD, AuDHD (la combinazione di autismo e ADHD), ma anche dislessiche, disgrafiche, discalculiche, con alto potenziale cognitivo, che mi hanno raccontato la loro esperienza. Moltissime di loro hanno ricevuto diagnosi in età adulta. Questo è successo, principalmente, perché non corrispondevano allo stereotipo di persona autistica o con ADHD che avevamo fino a qualche anno fa.

Infatti si parla di neurodiversità e neurodivergenza da pochissimo tempo, e spesso impropriamente. Come racconta Eleonora Marocchini, psicolinguista e comunicatrice della scienza, «in principio fu la neuroatipicità», termine medico che contrappone ciò che a livello cerebrale e cognitivo è statisticamente tipico, ovvero più comune, e ciò che non lo è.(“Neurodivergente. Capire e coltivare la diversità dei cervelli umani”, Tlon, 2024). Nella neuroatipicità ricadono condizioni che comportano «atipicità nel funzionamento del cervello» sia presenti dal neurosviluppo sia acquisite, per esempio in seguito a un trauma.

«I termini “neurodivergente”, “neurodivergenza” e “neurodiversità” hanno iniziato a diffondersi sempre di più sui social e oltre, prima online e poi offline, specialmente nell’ambito dell’attivismo e dell’advocacy sulla salute mentale e la disabilità», racconta Marocchini. “Neurodiversità”, neologismo che ricalca “biodiversità”, viene usato con il significato di “diversità neurologica”. E quindi non è una parola che separa un “noi” da un “loro”, anzi: chiunque ha un cervello fa parte della neurodiversità.

«Se ci si vuole riferire alla sola popolazione “neuroatipica”, ma evitando termini e concetti medicalizzati come quello di atipicità, si può parlare di “neurodivergenza” e “neurodivergente”», continua Marocchini. Queste parole hanno un valore politico e identitario, e identificano tutte le persone che divergono dalla norma neurologica. Ma l’aggettivo “neurodivergente”, di per sé, non dà alcuna informazione sul modo in cui il cervello diverge dalla norma.

Marocchini racconta bene il ruolo che le diverse comunità di persone neurodivergenti – autistiche e con ADHD, in primis, ma anche tutte le altre – stanno avendo nella creazione di nuove narrazioni e rappresentazioni. Questo ha fatto sì che un numero sempre maggiore di persone si identifichino come neurodivergenti. «Questa autoidentificazione, tra l’altro, è spesso il primo passo per cercare una valutazione neuropsicologica che può terminare in una diagnosi tardiva, in età adulta, che è tra i motivi dell’aumento di diagnosi di autismo degli ultimi anni», spiega Marocchini. Lo stesso avviene per l’ADHD.

Ci sono motivi culturali, scientifici, sociali che spiegano questo aumento di diagnosi soprattutto in età adulta. C’è una maggiore conoscenza di cos’è la neurodivergenza anche al di fuori degli ambienti clinici. Ci sono nuove narrazioni di autismo o ADHD, spesso meno stereotipate rispetto al passato. Fino a pochi anni fa, l’immaginario era molto rigido: l’autismo era associato solo a casi maschili, spesso non verbali e con disabilità cognitiva; l’ADHD a bambini maschi iperattivi. Oggi sappiamo che queste condizioni si presentano in modi diversi tra donne cisgender (che si riconoscono nel genere assegnato loro alla nascita), persone razzializzate (che subiscono razzismo), trans (che non si riconoscono nel genere assegnato loro alla nascita) o non binarie (che non si riconoscono esclusivamente nel genere maschile o femminile), che in passato venivano ignorate o mal diagnosticate. Sono poi cambiati i criteri diagnostici: oggi vengono riconosciute anche forme meno visibili o stereotipate. Sempre più persone si confrontano tra loro, si raccontano online, e trovano linguaggi e comunità in cui riconoscersi. Questo porta molte di loro a cercare una valutazione, anche solo per darsi delle risposte. Questo avviene soprattutto tra chi apparentemente “funziona” in società. Ma la diagnosi di autismo, ADHD, dislessia spesso arriva insieme a quella di ansia, depressione, disturbo ossessivo compulsivo. Le persone la cercano quando qualcosa in quel funzionamento si inceppa, o quando incontrano un contesto finalmente accogliente. Oggi la diagnosi non è più (solo) un’etichetta clinica: per molte persone è una chiave di lettura della propria storia e identità, uno strumento di autodeterminazione, una forma di riconoscimento.

Una vita da ADHD (e un anno di diagnosi) di Anna Castiglioni

Così inizia il viaggio alla scoperta di noi stesse attraverso la lente della neurodivergenza

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«Chi mi conosce di persona non lo direbbe mai, che sono ADHD di tipo combinato: sono tranquilla, apparentemente “normale”, discretamente socievole. Però, appunto, solo in apparenza», scrive Anna Castiglioni (Una vita da ADHD (e un anno di diagnosi), nella newsletter “Atipiche”, 2024). Potrei averlo scritto io.

Ma cosa spinge una persona adulta e tutto sommato “funzionante” a cercare una diagnosi di autismo, ADHD, dislessia, alto potenziale cognitivo? Cosa cambia, avendo una diagnosi? Per quanto mi riguarda, la mia diagnosi ha cambiato tutto e niente. Non ha cambiato niente perché sono una libera professionista, quindi non ho certificati da portare al lavoro così da ricevere particolari supporti. Non riceverò aiuti economici. Continuerò a fare esattamente la vita che facevo prima.

Ma allo stesso tempo ha cambiato tutto, perché ho dato un senso alla «fatica di vivere» che mia madre riconosce in me fin da bambina. Alla luce della diagnosi ho riletto tutta la mia storia scolastica, personale e professionale, dando un significato diverso a tante scelte che ho compiuto o subito. Avevo già intorno persone affini a me, ma ora capisco meglio perché ci siamo scelte. Da loro posso imparare strumenti e strategie. Ora ho più strumenti per continuare il mio percorso psicologico, e li ha anche la professionista che mi segue. E, da ultimo, non escludo in futuro un supporto farmacologico per gestire alcuni dei tratti dell’ADHD che mi affaticano maggiormente.

Così, forse, consegnerò un articolo prima della scadenza. Per una volta.

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ADHD: Disturbo da Deficit dall’ Attenzione e Iperattività

La consulenza 18.03.2025, 13:00

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  • Carlotta Moccetti

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