27 check-point presidiati, 7 richieste di documenti e “avete armi a bordo?”, un’infinità di zig-zag tra cavalli di frisia, blocchi di cemento, montagne di copertoni. Oltre 11 ore d’auto lungo i 700 chilometri che separano Kiev da Leopoli. Li ho percorsi venerdì, insieme al videomaker Mattia Capezzoli, attraversando una guerra senza missili – o quasi. Invece di città sotto assedio militare lungo questo percorso si percepisce un’asfissiante pesantezza. Non ho visto edifici distrutti. Eppure i segni dell’invasione sono altrettanto visibili, anche nelle comunità non colpite direttamente dagli attacchi dei russi. Ma soffocate e logorate da questa invasione. Che mette in fuga milioni di ucraini, paralizza la capitale semi-vuota e congela chi vive nelle campagne.
Ore 7:00 - Partenza all’alba col nostro interprete Oleg e il suo amico Mykula alla guida. La scritta “press” bene in vista sul cruscotto e appiccicata sul lunotto. Il grande viale di Khreshchaty è deserto, lo sguardo abbraccia Maidan, il monumento dell’Indipendenza e quella scritta col cuore rosso “I love Ucraina”. Scivoliamo subito dai dossi sovrastanti il Dnipro verso la tangenziale in direzione sud, l’unica via di uscita sicura da Kiev in questo momento.
Ore 7:47 – Dietro le colline a sinistra c’è Vasylkiv, la evitiamo perché la sera prima un convoglio ferroviario carico di profughi è stato colpito dai russi. Pochi danni, tanto spavento. Eravamo passati di lì anche noi mercoledì mattina in treno in direzione di Kiev.
Ore 9:18 – A Kaharlyk vediamo una specie di trincea scavata all’ingresso della città. Cunicoli e sacchi di sabbia. Sembrano quelle foto in bianco e nero della Seconda Guerra Mondiale. Al posto di blocco di un piccolo centro abitato appena fuori città c’è un lancia-granate lucido, come nuovo, appoggiato in direzione della strada verso est. I russi sono lontani da qui. Ma ci si tiene pronti.
Ore 11:17 - Sfioriamo Berdyciv e la sua storia, era la seconda comunità ebraica dell’impero russo. Da queste parti Honoré de Balzac sposò la nobildonna polacca Eveline Hanska nel 1850, come mi racconta Oleg, non solo un interprete ma garbato e colto Virgilio che ci ha accompagnato in questi giorni. Intanto l’instancabile Mattia Capezzoli riesce a inviare l’ultimo reportage per il Telegiornale, realizzato il giorno prima per raccontare storie di resistenza e resilienza tra cittadini rimasti a Kiev.
Scampoli di vita in un paese in Guerra.
Ore 11:35 - Il distributore vicino a Kozyatin vende la benzina a poco meno di un euro al litro. Nulla da fare per un indispensabile caffè, spiega con tono pacato la cassiera. La gentilezza non manca, tutto il resto sì. Gli scaffali sono vuoti. Non ci sono nemmeno i biscotti prodotti dall’ex-presidente, il re del cioccolato poi spodestato da Zelenski alle elezioni del 2019.
Ore 12:15 – Doveva essere un viaggio senza bombe. Invece a Vinnytsia le sfioriamo quasi. Quattro ore dopo il nostro passaggio, stando alle Forze armate ucraine è stata attaccata una base dell’aeronautica. Sei missili russi di cui alcuni intercettati. Pochi dettagli, non vi sarebbero vittime ma solo danni. Questa città ospitò un’importante base aerea durante la guerra fredda, ma fu pure teatro di massacri durante le purghe staliniane. E poi per mano dei nazisti ai tempi di Hitler (il “de-nazificare l’Ucraina” scandito da Putin qui suona doppiamente anti-storico e indecente).
Ore 14:09 – Strade dissestate nella cittadina di Letichev, traffico a rilento. Ai pali della luce le bandiere giallo-azzurre dell’Ucraina che tutti conosciamo. Un anziano seduto davanti a una casa scruta verso il cielo con sguardo stanco. Un kilometro più avanti, un altro anziano – stavolta in mimetica e le guance livide per il freddo – cerca di ostentare uno sguardo sicuro. Mani che paiono tenaglie impugnano il kalashnikov al posto di blocco. È una guardia delle difese territoriali. Cioè cittadini che imbracciano il fucile per proteggere chi è rimasto qui. Un paio di garitte ai bordi della strada sono costruite con tronchi impilati, legni intrecciati e cumuli di terra. Da una esce il tubo di una stufa. Ci si difende – e ci si scalda - come capita.
Un'altra istantanea di quasi normalità lungo il tragitto fra Kiev e Leopoli.
Ore 15:22 – Appena oltrepassato l’abitato di Volocysk, scorgiamo casette in tinta pastello in una pianura dolce, appena increspata da qualche collina. Galline e oche che razzolano davanti a edifici semplici. Abitazioni povere in un paese di 44 milioni di abitati dove nel 2020 il reddito medio era di poco superiore ai 300 euro al mese. La memoria corre ai luoghi dei Balcani, alle campagne fuori Belgrado negli Primi Anni Duemila, stesse +guerre e rivolte alle spalle, davanti solo l’incertezza.
Ore 16:09 – Nei pressi di Ternopil un cartello al bordo della strada: “Soldati russi: Idi Nash….”, “andate a quel paese” scritto a caratteri cubitali cirillici. Una pernacchia potente, lo sberleffo all’occupante che qui non trova nemmeno i cartelli stradali. Quelli a grandi lettere che accolgono normalmente chi arriva in città sono stati coperti. Per disorientare il nemico.
Ore 17:35 - Ecco le colline boscose che salgono verso Leopoli, in direzione dello storico cimitero Lychakiv. Lì una decina di giorni fa avevamo seguito i funerali di quattro ufficiali uccisi nel bombardamento russo della base di Yavoriv, a meno di 50 km di distanza. L’omaggio e i colpi di salve risuonati per rimembrare i caduti.
Ore 18:04 – Arriviamo a destinazione. Leopoli e l’eleganza visibile delle sue architetture barocche di Leopoli. Ma anche la sofferenza invisibile dei suoi 200mila profughi. La guerra non si vede. Ma c’è. Ovunque.
Ucraina, il reportage da Kiev
Telegiornale 25.03.2022, 21:00