La scheda

Gli occhi dell’Aia sulla Palestina sono due

La giustizia internazionale e il conflitto a Gaza: cosa fanno (e come non confondere) la CIG - che esamina l’ipotesi di un genocidio - e la CPI che potrebbe spiccare un mandato contro Netanyahu

  • 5 maggio, 07:25
  • 6 maggio, 09:02
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La sede della Corte penale internazionale all'Aia, in Olanda

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Di: Stefano Pongan

La giustizia internazionale guarda da vicino al conflitto in corso in Medio Oriente. La notizia secondo la quale la Corte penale internazionale starebbe per spiccare dei mandati di arresto, un provvedimento che secondo anticipazioni di stampa potrebbe toccare leader di Hamas ma anche il premier israeliano Benyamin Netanyahu, il ministro della difesa Yoav Gallant e il capo delle forze armate Herzi Halevi, ha scatenato le reazioni dello Stato ebraico e dei suoi alleati, Stati Uniti in testa. Netanyahu ha parlato di un’ipotesi “scandalosa” e in una telefonata con Joe Biden avrebbe chiesto il suo intervento per fermare i giudici. La Casa Bianca, per bocca della portavoce Karine Jean-Pierre ha dichiarato lunedì che gli Stati Uniti si oppongono a un simile provvedimento e ritengono che la Corte non abbia la competenza per intervenire.

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Il procuratore generale della CPI Karim Khan, in carica dal 2021

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Di diverso avviso è il procuratore capo della CPI, Karim Khan: la Corte ha aperto già nel 2021 un’inchiesta che riguarda sia Israele che Hamas e il magistrato britannico aveva affermato che sarebbe stata estesa ai fatti dal 7 ottobre in poi, rispondendo in novembre a una sollecitazione di diversi Stati. Dopo la fuga di notizie sul - per ora presunto - mandato di cattura per i tre esponenti israeliani, l’organo non ha tuttavia reagito in alcun modo. Non ha confermato, né smentito.

Fra i Paesi all’origine della sollecitazione dello scorso autunno c’era il Sudafrica, Paese amico della Palestina. Sudafrica che è anche all’origine dell’azione intentata contro Israele alla Corte internazionale di giustizia, in seguito alla quale - in attesa di pronunciarsi sulla questione di fondo ovvero se nella Striscia di Gaza sia o meno in atto un genocidio - ha imposto il 26 gennaio allo Stato ebraico di “prevenire possibili atti di genocidio” e il 28 marzo di assicurare che nella Striscia arrivino aiuti umanitari urgenti.

Due volte il Sudafrica, due volte l’Aia dove entrambi gli organi hanno sede... ma per l’appunto due tribunali diversi. Cosa distingue la Corte penale internazionale dalla Corte internazionale di giustizia? Quali sono le rispettive funzioni, competenze e giurisdizioni? Cerchiamo di chiarirlo.

Cos’è e cosa fa la Corte internazionale di giustizia

La Corte internazionale di giustizia (CIG o ICJ nella sua sigla inglese) è il principale organo giudiziario dell’ONU, previsto dalla Carta delle Nazioni Unite firmata subito dopo la Seconda guerra mondiale, il 26 giugno 1945 a San Francisco, e ha la sua sede all’Aia in Olanda sin dalla sua entrata in funzione nel 1946. Ha 15 giudici, due lingue ufficiali (inglese e francese) e due compiti principali:

  • Dirimere sulla base del diritto internazionale questioni legali fra Stati, sottoposte dagli stessi (essenzialmente i 193 membri dell’ONU)

  • Dare pareri giuridici su questioni sollevate dall’ONU o dalle sue agenzie

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Il Palazzo della pace dell'Aia, sede della Corte internazionale di giustizia

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Non può pronunciarsi su controversie portate avanti da individui, organizzazioni non governative o altre entità private, a meno che uno Stato non si faccia portavoce di un caso che riguarda un suo cittadino. Non può nemmeno agire di propria iniziativa per dirimere dispute o per indagare atti di Stati sovrani. Può essere chiamata in causa da un Paese in vari modi: unilaterale, da due parti in causa quando devono risolvere una vertenza, o attraverso un trattato: oltre 300 accordi internazionali contengono una clausola in cui i firmatari prevedono che disaccordi nell’ambito dell’intesa vanno risolti dalla CIG. Le decisioni della Corte sono definitive e senza appello. Tuttavia, essa non ha i mezzi di coercizione per farle rispettare. Ed è importante notare che non siamo qui nell’ambito di sanzioni penali.

Cos’è e cosa fa la Corte penale internazionale

È invece proprio in questo ambito specifico - e qui sta la prima differenza di peso - che si muove la Corte penale internazionale (CPI nella sigla italiana, ICC in quella inglese), come detto anch’essa con sede all’Aia, il che contribuisce alla confusione fra le due. Seconda grande differenza: la CPI non è un tribunale dell’ONU, anche se ha dei legami con le Nazioni Unite. Qui entriamo maggiormente nel dettaglio, perché è questa che potrebbe spiccare un mandato di cattura nei confronti di dirigenti israeliani.

La Corte ha il suo fondamento in un accordo internazionale, lo Statuto di Roma, approvato nel 1998 e che le dà giurisdizione per perseguire tre crimini principali (in origine) poi diventati quattro:

  • Genocidio, che si caratterizza per l’intento di distruggere per intero o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso

  • Crimini contro l’umanità, ovvero il ricorso nei confronti della popolazione civile a violenze sistematiche come uccisioni, stupri, rapimenti, detenzioni, sparizioni forzate e riduzione in schiavitù

  • Crimini di guerra, come l’uccisione di civili o prigionieri di guerra, la tortura, l’attacco intenzionale contro ospedali, monumenti storici, edifici religiosi

  • In virtù di un emendamento aggiunto alla conferenza di Kampala nel 2010 e in vigore dal luglio 2018, il crimine di aggressione, ovvero l’uso della forza contro la sovranità, l’indipendenza o l’integrità di un altro Stato.

Terza differenza: davanti alla Corte non si presentano Stati, ma individui. Vengono condannate (o assolte) delle persone e non dei Paesi. Quarta differenza rispetto alla CIG: la Corte penale internazionale può agire motu proprio, di propria iniziativa. Ma - quinta differenza - la sua giurisdizione internazionale si limita agli Stati che hanno aderito allo Statuto di Roma e ai loro cittadini, e soltanto se lo Stato interessato non è in grado di perseguire il responsabile del crimine in questione, oppure non vuole.

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La CIG dirime questioni fra Stati, la CPI (in immagine la corte del processo al congolese Bosco Ntaganda) processa individui

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Gli Stati che riconoscono lo Statuto sono 124, e una delle ultime a dare la propria adesione fu proprio la Palestina il 1° gennaio del 2015 (effettiva dal 1° aprile di quell’anno). La Sezione preliminare nel 2021 sancì che quell’adesione fu in regola e che quindi la Corte ha giurisdizione su Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est, pur precisando che questo non implica un riconoscimento vincolante per la comunità internazionale dell’esistenza di uno Stato palestinese, un passo politico che non le compete. Sappiamo che ancora di recente il Consiglio di sicurezza dell’ONU, per il veto statunitense, ha rifiutato di accogliere lo Stato palestinese in seno alla famiglia dei membri delle Nazioni Unite e che la Svizzera in quel caso si era astenuta. Il Consiglio di sicurezza - e qui sta il legame con l’ONU - ha il potere di deferire alla Corte casi che altrimenti non sarebbero di sua competenza.

Tre grandi potenze e Israele non aderiscono

Occorre però che nessuno opponga il suo veto ed è bene sapere che fra gli Stati che riconoscono lo Statuto di Roma non figurano tre dei cinque membri permanenti del Consiglio, che detengono questo potere: la Russia, che pure aveva approvato inizialmente il testo, la Cina e gli Stati Uniti. E nemmeno Israele. Proprio per questo, la questione del riconoscimento o meno della Palestina come Paese aderente allo Statuto è così rilevante: senza di esso, visto che Tel Aviv non ha ratificato l’accordo, gli atti dei cittadini israeliani in Cisgiordania e a Gaza sfuggirebbero alla giurisdizione del tribunale. Israele sostiene che la Palestina non è uno Stato e che quindi la CPI non ha alcuna giurisdizione su quei territori.

Fra i Paesi aderenti non c’è nemmeno l’Ucraina, che dopo i fatti del 2014, tuttavia, in due fasi ha autorizzato la giurisdizione della Corte a partire da quella data. Questo ha permesso i mandati di arresto spiccati nei confronti di Vladimir Putin, della commissaria presidenziale per i diritti dei bambini Maria Alekseevna Lvova-Belova e di due alti graduati dell’esercito russo.

Perché un caso approdi davanti alla Corte, dopo esami preliminari e investigazioni affidate alla procura, durante le quali può essere spiccato un mandato di arresto, il dossier deve superare, nella procedura ordinaria, il giudizio della già citata Camera preliminare. Essa deve stabilire se ci sono sufficienti elementi per andare a processo. In caso affermativo, si va in aula. I gradi di giudizio sono due (esiste possibilità di appello). I giudici della Corte, eletti per un mandato non rinnovabile che dura 9 anni, sono 18. Possono pronunciare pene fino a 30 anni di detenzione (in casi eccezionali l’ergastolo) ma non giudicano in contumacia. Come la Corte internazionale di giustizia, la CPI non ha però i mezzi che le permettano di imporre le sue decisioni agli Stati e di sanzionare chi non le applica. Cattura ed esecuzione delle pene sono lasciati ai Paesi membri, teoricamente tenuti ad eseguire i mandati. La prigione olandese di Scheveningen accoglie attualmente solo una decina di persone in attesa o in corso di giudizio, oppure che devono essere trasferite nello Stato in cui sconteranno la pena.

Dieci sole condanne in oltre 20 anni

Ecco perché - e qui cominciano gli aspetti critici - un organismo che conta in tutto uno staff di oltre 900 persone e un budget che nel 2023 sfiorava i 170 milioni di dollari ha generato in 20 anni solo 31 casi (53 imputati in tutto) e prodotto appena una decina di condanne (a fronte di quattro assoluzioni). Tredici persone sono attualmente ricercate. Le indagini aperte riguardano fatti in una dozzina di Paesi. Complice la mancata collaborazione dei Paesi firmatari, accusati eccellenti come l’ex presidente sudanese al Bashir sono ancora uccel di bosco o diventa difficile raccogliere gli elementi di prova per sfociare in un’incriminazione.

Tribunali ad hoc

La CPI è permanente ma, a titolo di paragone, i suoi sono numeri molto più bassi rispetto a quelli del Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia, un’altra delle corti da non confondere con le precedenti. Si trattava - vale la pena ricordarlo - di un organo giudiziario creato ad hoc dall’ONU per giudicare i responsabili dei crimini commessi durante i conflitti che hanno portato alla disgregazione dell’allora Iugoslavia, a partire dal 1991. Sciolto nel 2017, ha aperto procedimenti a carico di più di 150 persone e ne ha condannate un’ottantina. L’analoga corte delle Nazioni Unite incentrata sul genocidio ruandese (Tribunale penale internazionale per il Ruanda) ha processato più di 70 imputati condannandone 61 fino al suo scioglimento nel 2015.

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Un'altra cosa ancora: il Tribunale penale internazionale per l'ex Iugoslavia era stato creato ad hoc dall'ONU per occuparsi di un'area geografica e di un periodo ben precisi. Qui, in aula nel 2004, l'ex presidente Slobodan Milosevic. La Corte ha chiuso i battenti nel 2017

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Davvero universale? Chi è finito nel mirino della Corte e chi no

L’altro aspetto criticato della CPI è la sua effettiva universalità. Una delle indagini aperte riguarda il Burundi e le violenze commesse quando nell’aprile del 2015 il presidente Pierre Nkurunziza annunciò che sarebbe stato in lizza per un terzo mandato. L’annuncio dell’apertura di un’inchiesta preliminare arrivò il 25 aprile 2016. Indispettita, Bujumbura il 26 ottobre 2017 si ritirò dallo Statuto di Roma. Nessuna capitale aveva compiuto fin lì questo passo. Eventuali crimini commessi dopo quella data, di riflesso, non possono più essere perseguiti dalla CPI, anche se l’indagine di cui sopra rimane aperta. Con quali argomenti le autorità del Burundi hanno annunciato il loro addio alla Corte? Con una chiara accusa, quella di prendere di mira “solo leader africani”. Per il medesimo motivo, Kenya, Gambia e Sudafrica avevano evocato il medesimo passo, senza mai passare all’atto. Nel caso gambiano sarebbe stato un passo ancor più clamoroso, perché fino al 2021 la procuratrice generale, Fatou Bensouda, veniva proprio dal quel Paese africano. In seguito, nel 2019, hanno abbandonato lo Statuto anche le Filippine, dopo l’apertura di un’inchiesta (per ora senza accusati) concernente la violenta “guerra alla droga” dell’ex presidente Rodrigo Duterte.

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In una ventina di anni di attività, la CPI ha condannato solo una decina di imputati

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Quanto c’è di vero in queste accuse? È un dato di fatto che tutti gli imputati fin qui processati dalla CPI sono africani. Fra le persone che, nel tempo, sono state ricercate o lo sono ancora, non sono africani unicamente i quattro cittadini russi citati in precedenza, fra cui Vladimir Putin, e altri tre russo-georgiani per accuse riguardanti l’accaduto nella repubblica separatista dell’Ossezia del Sud nell’agosto del 2008. Tutti sono ancora considerati latitanti.

Iraq, nulla di fatto

Nessun cittadino di un Paese occidentale è mai stato nemmeno oggetto di un mandato di arresto, e ancor meno giudicato o condannato, anche se indagini sono state aperte sia sul conflitto in Iraq che su quello in Afghanistan, su tutti gli attori in campo. Nel primo caso, la procura si è interessata anche alle accuse rivolte a soldati britannici. Una prima inchiesta preliminare era stata rapidamente archiviata, per poi essere riesumata nel 2014 - a 10 anni dai fatti - dopo la presentazione di nuove prove da parte di ONG. Nel 2020 si è giunti a una nuova chiusura del dossier senza conseguenze: nel suo rapporto la procura della CPI scrive che “benché ci siano motivi di credere che soldati britannici avessero commesso crimini di guerra” sotto forma di uccisioni e ai danni di detenuti sotto la loro custodia, non c’erano elementi tali da affermare che Londra avesse deliberatamente trascurato di perseguire i propri militari, per quanto aspetti dell’inchiesta nazionale siano “talvolta preoccupanti” e questa si sia conclusa senza alcun rinvio a giudizio, il che - per stessa ammissione della CPI - ha privato le vittime di giustizia. È il principio già ricordato in precedenza: la CPI può intervenire solo se gli Stati membri non possono o non vogliono perseguire uno dei quattro crimini per i quali è competente. Erano esclusi dall’inchiesta i soldati statunitensi, sottratti a un possibile perseguimento perché la Corte non aveva giurisdizione su di loro: né Washington, né Baghdad hanno mai ratificato lo Statuto di Roma.

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L'ex procuratrice generale della CPI, Fatou Bensouda

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Afghanistan: si indaga su tutti, ma nessuna incriminazione

Per quanto concerne l’Afghanistan, il dossier è ancora aperto. I crimini oggetto di inchiesta partono dall’adesione di Kabul alla Corte, nel 2003. La CPI ha impiegato 10 anni di esami preliminari prima che la procuratrice Bensouda proponesse nel 2017 di procedere con il passo successivo. Una richiesta in un primo tempo respinta e poi accolta in appello nel 2020. Questa decisione che fece infuriare Washington. L’amministrazione Trump, nel tentativo di dissuadere la Corte dal perseguire cittadini statunitensi, non esitò a sanzionare la procuratrice stessa, una decisione poi cancellata durante il mandato di Joe Biden. Le autorità di Kabul - all’epoca vicine all’Occidente - avevano intanto chiesto una sospensione dei lavori, per procedere a una propria inchiesta. Il 31 ottobre 2022, tornati al potere i talebani in Afghanistan, la Camera preliminare ha autorizzato la procura a riprendere i lavori.

Nel frattempo, Bensouda era giunta a fine mandato, sostituita da Karim Khan, oggi in carica. Il magistrato britannico aveva fatto sapere di volersi concentrare sui crimini commessi dai talebani stessi e dal ramo locale dell’autoproclamato Stato islamico, lasciando in secondo piano “altri aspetti delle indagini”, senza nemmeno citare esplicitamente le accuse nei confronti di statunitensi e loro alleati. Un approccio criticato dalle ONG come Amnesty International, che parlarono di “due pesi e due misure”, tanto più che fra gli episodi su cui gli inquirenti avevano raccolto la documentazione più completa e che figuravano nella domanda di autorizzazione ad indagare, quelli che coinvolgevano cittadini statunitensi (soldati o agenti della CIA) costituivano il gruppo più numeroso. La Camera d’appello il 4 aprile 2023 ha dato torto a Khan, attribuendo un mandato conforme a quanto Bensouda aveva chiesto nel 2020. L’indagine quindi prosegue. Ad oggi, a oltre 20 anni dai primi fatti esaminati, nessuno risulta ricercato o incriminato.

Palestina, fin qui trascurata

Chiudiamo il cerchio: è lo stesso Khan - secondo quanto ha anticipato la stampa israeliana - ad avere ormai pronti nel cassetto i mandati di arresto per quanto accaduto negli ultimi mesi a Gaza. Come detto l’adesione palestinese allo Statuto di Roma risale al 2015, il via libera all’inchiesta da parte della Camera preliminare del 2021. Khan ha detto che si procede “con la massima urgenza” e il 29 ottobre si è recato per la prima volta nella regione. L’inchiesta sulla Palestina fin qui non è mai stata centrale nell’operato della Corte. Nel 2022 il budget non assegnava a questo dossier nemmeno un soldo, nel 2023 la cifra a disposizione dell’inchiesta era la più bassa di tutti gli incarti aperti - poco meno di un milione di dollari - e appena un quinto di quanto richiesto per il caso ucraino.

Gaza aspetta la risposta di Hamas

Telegiornale 02.05.2024, 12:30

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