Intervista

Trump sembra “imbattibile”. Ma perché?

Parola a Mario Del Pero, professore di storia degli Stati Uniti: “L’America si è assuefatta all’ex presidente e i conservatori si sono innamorati di lui”

  • 31 gennaio, 05:57

Chi fermerà Donald Trump? - La rabbia dei contadini contagia l’Europa. E la Svizzera?

60 minuti 29.01.2024, 21:05

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Di: 60 Minuti/RSI Info

Trump ha il vento in poppa, il suo partito lo tollera a fatica eppure nessuno è in grado di batterlo. Come mai? “Dal 2016 a oggi, Trump ha preso il controllo, non tanto delle strutture del partito (che sono comunque strutture leggere, molto disarticolate) ma di un elettorato conservatore che si riconosce in Donald Trump. E l’America si è assuefatta”, spiega ai microfoni di 60 minuti Mario Del Pero, professore di storia degli Stati Uniti a Sciences Po (Istituto di studi politici) di Parigi.

“L’America conservatrice si è innamorata di Trump. La politica non ha, come dire, “civilizzato” Trump, non lo ha pienamente alfabetizzato alle istituzioni. Continua a parlare lo stesso lessico ruvido, scorretto, talora volgare e violento, lo stesso che usava quando è entrato in politica. Ma, paradossalmente, questo è diventato un suo elemento di forza”, precisa.

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Ad un comizio a Las Vegas sabato 27 gennaio

“Un linguaggio che in una certa misura gli permette di essere più vicino agli americani. Da un lato c’è un confronto politico che è andato imbarbarendosi, in un contesto molto polarizzato in cui le due parti non si riconoscono più l’un l’altra come avversari politici legittimi ma si percepiscono e si raccontano come nemici esistenziali, pericoli assoluti per la democrazia americana. In un contesto così polarizzato la qualità del discorso politico e del confronto pubblico tende ad abbassarsi. Se il nemico è un tale pericolo, lo puoi descrivere in tutti i modi e tutti i mezzi sono leciti per impedire che giunga al potere”.

Delegittimazione della politica e delle istituzioni

Poi, continua il professore, “c’è un dato legato anche alla delegittimazione della politica e delle istituzioni. Gallup, da anni, fa dei sondaggi sulla fiducia degli americani nelle istituzioni: quelle politiche hanno la fiducia più bassa, assieme anche ai media, alla televisione e ai giornali. Quindi, cavalcare questa ostilità, questa delegittimazione della politica facendo proprie posizioni grossolanamente antipolitiche, in una certa misura paga. Trump è diventato presidente proprio combattendo l’establishment, è diventato lui stesso establishment, a suo modo, con quattro anni alla presidenza. Lui, in una certa misura, non cambia mai pelle agli occhi degli americani. Se andiamo a vedere come ha governato in questi quattro anni tra il 2017 e il 2021 lo ha fatto per tanti aspetti in modo molto repubblicano ortodosso, come avrebbe probabilmente governato su tanti aspetti qualsiasi altro presidente repubblicano”.

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Mario Del Pero: "Penso ci sia una crisi della democrazia statunitense"

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“Se fosse stato eletto un Marco Rubio o un Ted Cruz nel 2016, per citare alcuni suoi avversari delle primarie di allora, non credo che l’azione di Governo sarebbe stata tanto diversa: tagli alle tasse, deregulation, nomine di giudici conservatori alle corti… Il linguaggio, invece, è stato molto diverso, molto sopra le righe, ed è diventato una cifra distintiva del modo molto antipolitico di fare politica di Trump. Anche in queste campagne per le primarie lo vediamo: conia nomignoli, epiteti e insulti diretti ai suoi avversari (ultima, in ordine di tempo, l’ex ambasciatrice all’ONU Nikki Haley) fa circolare dossier scottanti sugli avversari politici (prima su De Santis, adesso sulla stessa Haley)… La bruttezza, diciamo così, di questa azione politica si accompagna a una certa grossolanità e anche violenza del linguaggio, che poi però viene messo al servizio di un disegno politico che, per tanti aspetti, in termini di contenuti e di programmi è più convenzionale di quanto non si creda”.

A scadenze regolari, anche Trump viene condannato e sono molte le procedure giudiziarie aperte contro di lui, ma l’impressione è che non sarà la magistratura a fermarlo. “In una certa misura dovranno essere gli elettori a farlo”, prosegue Del Pero, “come fecero nel novembre 2020. Ma sappiamo che anche che quello non basta, perché Trump si rifiutò di accettare la scelta degli elettori e cercò, con quello che fu un disegno eversivo, di rovesciare l’esito di quel voto. Processo che culminò nella terribile giornata del 6 gennaio con l’assalto al Congresso”.

“È chiaro”, continua, “che le indagini della magistratura non possono supplire a una crisi della politica, in una certa misura una crisi della democrazia statunitense. Se poi entriamo nel merito di queste indagini, alcune sono fragili e altre sono diventate più fragili perché una delle più importanti, che era quella condotta dalla procuratrice di Atlanta, adesso è finita in un vicolo cieco per i comportamenti non ortodossi della stessa procuratrice la quale ha avuto una relazione con uno degli avvocati assunti per investigare su Trump. E tutto ciò sta creando una serie di problemi che vanno a quantomeno rallentare significativamente quell’inchiesta”.

La crisi del 2008 e le contraddizione della globalizzazione

“Credo ci sia una crisi della democrazia statunitense, perché le democrazie devono poi fornire risultati, il primo dei quali è la protezione in senso ampio esteso dei propri cittadini: la protezione fisica dalle minacce esterne ma anche protezione economica. Ecco, le nostre democrazie, in una certa misura quella statunitense, hanno in parte fallito in questo compito. Parlando da storico, credo che un tornante cruciale rimanga la grande crisi finanziaria del 2007-2009, crisi che ha esposto le mille contraddizioni della globalizzazione, dei processi di integrazione economica globale e mostrato la sofferenza di alcune parti degli Stati Uniti che per decenni hanno sofferto di redditi stagnanti e posti di lavoro perduti.”

A suo avviso si tratta di “una transizione, diciamo post-industriale, per semplificare, che ha colpito duramente dei pezzi d’America. E questi pezzi a un certo momento hanno chiesto che venisse saldato il conto trovando una risposta nella demagogia, nel populismo e anche nella violenza. Questa non è la sola spiegazione del trumpismo, e credo che se diamo una lettura tutta economicistica dell’ascesa di Trump cogliamo solo una parte del discorso, ma quella parte c’è e va considerata”.

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La candidata repubblicana Nikki Haley

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“A quel tipo di malessere, a quel tipo di difficoltà di parte della società americana, forse una risposta bisognava darla e non dire ‘tutto verrà tutto sistemato dalla globalizzazione. Indubbiamente, una certa rappresentazione molto benevola della globalizzazione occultava tante delle contraddizioni. Poi, come ogni processo di trasformazione epocale, anche la globalizzazione ha prodotto vincitori e vinti, chi ci ha guadagnato e chi ne è uscito sconfitto, talvolta pesantemente. Questo è il caso di pezzi dell’industria americana, di lavoratori di un settore industriale che garantiva un lavoro certo, buone retribuzioni, protezione sanitaria…

“Dal 2009 in realtà”, precisa, “alcune risposte sono state date: massicci piani di stimolo all’economia, di investimenti pubblici come quello di Obama del 2009, ma anche quelli degli stessi Trump e Biden in risposta alla pandemia. L’offerta di sanità pubblica è stata di molto ampliata. Una cosa che forse non capiamo sono le conseguenze della riforma di Obama, forse non del tutto voluta, o almeno in queste dimensioni, consistite un significativo ampliamento dell’offerta di sanità pubblica. Però non è bastato, e da un certo momento in poi la dimensione di sofferenza, di difficoltà causata da matrici economiche si è intrecciata con mille altre dimensioni, compreso le tensioni razziali che rimangono in un Paese come gli Stati Uniti. Trump non è la causa di questa sofferenza in cui si trovano gli Stati Uniti, ma ne è in una certa misura il prodotto, l’espressione”.

“I democratici hanno anche “giocato col fuoco” negli ultimi cicli elettorali - continua l’esperto - Nel 2022, durante le primarie che selezionavano i candidati repubblicani al Congresso, i democratici sono intervenuti invitando a votare i candidati trumpiani perché erano ritenuti più deboli e “battibili” di quelli più convenzionali, più normali, più mainstream. Fu un gioco discutibile da un punto di vista dell’etica politica, un gioco molto azzardato ma che nel 2022 pagò. Trump è forse l’avversario migliore per i democratici oggi, questo ci indicano i sondaggi: Biden perderebbe con margini più ampi contro una Nikki Haley, prima ancora contro un Ron De Santis, di quanto non perda con Trump”.

“La polarizzazione di cui si accennava fa sì che oggi la spinta per andare a votare, la motivazione politica che porta alle urne (anche massicciamente, perché è cresciuto il tasso di partecipazione elettorale nelle ultime tornate), è una motivazione negativa: è la paura della controparte, è l’avversione al progetto politico della controparte, alle persone che lo rappresentano, piuttosto che il sostegno alla propria parte, alle proprie idee, alla propria visione. E Trump motiva l’elettorato, lo ha fatto massicciamente nel 2020. Basterà nel 2024? Questo è il grande punto di domanda”.

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"La grande sfida per Biden è portare la gente alle urne"

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“I democratici sono l’elettorato strutturalmente maggioritario negli Stati Uniti ma è più difficile da portare alle urne perché più composito, più eterogeneo da un punto di vista degli orientamenti politici e da un punto di vista demografico di quello repubblicano - spiega ancora Del Pero, “che è molto più coeso e molto più definibile. La grande sfida per Biden è portare la gente alle urne, portare il popolo democratico alle urne. È una sfida complessa perché c’è disillusione verso Biden, c’è ostilità verso alcune sue scelte politiche, anche di politica estera, e nel 2024 forse non c’è quello spirito che ci fu nella campagna del 2020 in mezzo alla pandemia e tutto quel che ne conseguì. Si può dire che i democratici potrebbero vincere solo se riusciranno a mobilitare un voto “contro”, e nella fattispecie contro Trump. Questa può essere la chiave di un eventuale loro vittoria”.

“Trump accende la nostalgia per il periodo del bengodi”

Il professore conclude spiegando che: “Una volta si diceva: se fai bene con l’economia che problema hai? Sarai rieletto presidente E l’economia americana, numeri alla mano, sta andando piuttosto bene. Peraltro andava anche piuttosto bene nel 2020, durante l’ultima campagna elettorale che poi fu anche condizionata dalla gestione Trump della pandemia. Nel 2020 infatti molti studi indicano che forse Trump non avrebbe perso senza l’impatto del Covid-19 e di quel quel che ne seguì. Fu nel 1992 che James Garvey, lo stratega di Clinton, coniò lo slogan “è l’economia, stupidi”, è l’economia su cui bisogna soffermarsi, è quella che fa vincere le elezioni. In un contesto polarizzato, questo non funziona, perché le prese di posizione ci sono a prescindere. Le percezioni sono molto definite dall’orientamento politico.

“Perciò”, prosegue, “se guardate l’orientamento politico oggi, i democratici dicono che l’economia va bene, mentre i repubblicani dicono che va male, a prescindere dai dati e anche a dall’impatto diretto di questi dati sulla loro quotidianità, sulle loro sulle loro vite. Quindi ci sono due narrazioni contrapposte. Dopodiché, se torniamo al periodo antecedente al 2008, era un periodo in cui avendo come unica risorsa patrimoniale un appartamento o una casa, grazie al valore costantemente crescente di quell’immobile potevo rinegoziare il mio livello di indebitamento e consumare di più. Quel mondo lì, quel bengodi lì, è crollato nel 2008. Trump continua ad accendere la nostalgia verso quell’epoca, che non c’è più. È un’epoca che tanti consumatori americani ricordano e rimpiangono. Questo è un elemento che gioca nelle narrazioni su un’economia che, numeri alla mano, va bene, anzi più che bene”.

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