“Non è questo il problema nei rapporti tra Stato e religione”, risponde così alla RSI Anastas Odermatt, sociologo delle religioni all’università di Lucerna, interpellato sulla discrepanza di fede tra eletti e popolazione. I dati che fanno discutere sono quelli dei risultati di uno studio anticipati dal Tages-Anzeiger. Mostrano ad esempio che mentre la fascia di popolazione senza appartenenza a una chiesa (34%) è sottorappresentata, visto che in Parlamento la quota di deputati che dichiara di non aver alcuna fede è del 23%. Nell’intervista Odermatt riflette su questo dato e aggiunge una riflessione storica sui rapporti tra politica e religione in Svizzera.
Secondo lei c’è un motivo particolare per cui i politici tendono maggiormente a far parte di una comunità religiosa (cattolica, protestante, ecc.), oppure il dato è casuale?
“Evidentemente l’appartenenza a una chiesa è un fattore rilevante in politica. Va comunque detto che il Parlamento non è mai uno specchio fedele della società, rappresenta piuttosto un’élite politica. Per fare carriera politica bisogna mostrare all’elettorato che si fa parte della società, e l’appartenenza a una religione è una delle caratteristiche per poterlo fare. Può quindi essere un vantaggio, anche questa informazione non ci dice nulla sulla religiosità della persona”.
Ma allora quanto è rilevante l’appartenenza religiosa in politica? E quando diventa un problema?
“Non è un problema, in linea di principio. Le convinzioni religiose influiscono sulle proprie decisioni su un campo tematico limitato, ad esempio quando si parla di omosessualità o diritto all’aborto. Può essere un problema strutturale quando si parla di minoranze religiose, ad esempio quella musulmana, com’è stato con le iniziative sui minareti, o sul burka. Ecco, se queste minoranze non sono rappresentate, la loro posizione è assente durante il dibattito politico”.
In effetti lo studio citato dal TagesAnzeiger evidenzia che in Parlamento ci sono due eletti su 246 con fede islamica, una quota inferiore alla popolazione residente. Però ad essere ancora più sottorappresentata - in proporzione - è la fascia senza confessione...
“Sì, ma ciò non mi sembra così problematico. Perché, in particolare tra i partiti di sinistra, ci sono vari politici senza appartenenza religiosa. È importante che nel dibattito emergano tutte le convinzioni e argomentazioni, e il problema si pone quando quella di una minoranza è praticamente assente”.
L’impressione è che in Svizzera - al contrario ad esempio degli Stati Uniti, tanto in primo piano in questi giorni - la propria religione sia raramente messa in evidenza dai politici. In un discorso raramente si sente un riferimento alla propria fede. Addirittura, il partito che oggi si chiama Centro ha tolto qualsiasi riferimento cristiano dal nome. Rimane solo il piccolo Partito evangelico (EVP).
“In effetti in Svizzera la religiosità viene ritenuta una questione privata. Non se ne parla, un po’ come dei soldi. Negli Stati Uniti per motivi storici è molto diverso. E parlando di storia… dobbiamo ricordarci che la Svizzera moderna, nel 1848, è nata dopo un conflitto religioso tra cattolici e riformati. Per evitare scontri, la Costituzione federale ha stabilito che le questioni religiose vengono regolate a livello cantonale. È come se la politica federale non volesse occuparsi di questioni religiose! Questo mi sembra un problema più grande delle differenze percentuali tra cittadini ed eletti in materia di fede”.
Allora quando diventa un problema l’assenza di una politica federale su questioni religiose?
“A livello nazionale si discute di questione religiosi, ma il dibattito si limita agli aspetti di sicurezza, o di politica interna. Per il resto il rapporto tra Stato e religione viene delegato ai Cantoni. Ma le comunità religiose, in particolare quelle più piccole, si organizzano a livello nazionale, non si fermano ai confini cantonali. La Costituzione ci impedisce di trovare risposte a questioni come la formazione religiosa o il sostegno statale, che in certi casi andrebbero cercate sul piano nazionale”.