Il 29 novembre del 2019 nella capitale inglese un aspirante terrorista recidivo è riuscito a portare a termine un attacco brutale che ha avuto il suo epilogo sul London Bridge. La vicenda ha dato avvio a un acceso dibattito critico, attorno al concetto di de-radicalizzazione.
La de-radicalizzazione occupa uno spazio rilevante nel quadro delle varie strategie nazionali e internazionali di contrasto al terrorismo. Gli interrogativi sulla sua efficacia sono legittimi e soprattutto, rispecchiano preoccupazioni concrete, in vista della scarcerazione di numerosi individui già sostenitori e simpatizzanti dello Stato Islamico, di al-Qaeda e altre sigle analoghe e dell’incognita che pesa sul rimpatrio e il reinserimento di ex-combattenti dalla Siria e da altri teatri di guerra.
I limiti e anche i fallimenti di alcuni programmi di de-radicalizzazione possono dipendere da cause diverse ma affinché le aspettative siano realistiche, è fondamentale capire chiaramente di cosa si occupano e cosa implicano gli interventi di questo genere.
A spiegarlo è Rashad Ali, esperto del settore all’Institute for Strategic Dialogue di Londra, dove è impegnato nei progetti di contrasto al radicalismo sia nelle prigioni, che nell’ambito della libertà vigilata e della società più in generale. Mentre Nafees Hamid, ricercatore e psicologo della radicalizzazione affiliato ad Artis International e all’International Centre for Counter-Terrorism, racconta i risultati delle sue indagini sul terreno, che gli hanno permesso di studiare cosa avviene nel cervello di uno jihadista: con delle conclusioni importanti, per capire anche le difficoltà legate al processo di disimpegno dalla violenza.
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