Nel 1961 Hannah Arendt andò a seguire a Gerusalemme come corrispondente del The New Yorker il processo contro Adolf Eichmann (uno dei comandanti delle SS responsabili dell’organizzazione della cosiddetta “soluzione finale”,) e scrisse per la prima volta della «banalità del male». Ne ricavò poi un libro uscito negli Stati Uniti nel 1963 e in Italia nel 1964, pubblicato da Feltrinelli, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, che scatenò polemiche violentissime. Sono passati 60 anni da quel libro che, insieme agli altri scritti della Arendt, rappresenta uno dei pilastri del pensiero del Ventesimo secolo, con ancora una grande attualità.
Una persona può fare del male senza essere malvagia?
Era questa la domanda ultima che si poneva Hannah Arendt nel suo saggio La banalità del male, considerato oggi una delle pietre miliari della Storia del pensiero del Novecento, scritto a partire dal processo in Israele contro il gerarca nazista Adolf Eichmann: uno dei comandanti delle SS responsabili dell’organizzazione della cosiddetta “soluzione finale” per l’eliminazione degli ebrei. Ad Alphaville ne abbiamo parlato con la filosofa politica Simona Forti, docente alla Normale di Pisa, autrice del libro I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, partendo dall’elaborazione di Arendt per arrivare fino ai nostri giorni.
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