L’ordine sta rapidamente svanendo, cantava Bob Dylan sessant’anni fa, profetizzando un nuovo mondo a venire. Riascoltare The times they are a-changin’ oggi, a più di mezzo secolo dalla sua stesura, si presta a molte riflessioni. Dylan è sempre presente, sia che declini l’invito a presenziare alla cerimonia degli Oscar (anno 2025), oppure che snobbi l’Accademia svedese allorquando questa gli conferisce il premio Nobel (anno 2016).
L’assidua presenza/assenza di Bob Dylan è per molti versi assimilabile alla sua perenne attualità/inattualità. Di più, l’arcipelago Dylan è così vasto e mutevole che, al pari di altri giganti dell’arte e della cultura del Novecento, lo si può avvicinare dalle prospettive più diverse senza mai dare l’impressione di forzare la mano. Privilegio dei pesi massimi, siano questi dei maestri, dei profeti o, citando il titolo dell’ultimo bio-pic a lui dedicato, degli emeriti signor nessuno.
Dylan come compositore jazz. O meglio, Dylan come plausibile/implausibile compositore di musica jazz; lui, il folksinger per antonomasia. Definire Dylan un compositore jazz è certamente una forzatura, se non proprio una provocazione, ma il suo sterminato catalogo di canzoni è oggi così frequentato dai jazzisti del mondo intero che non è più anatema affiancare il suo nome a quello di compositori di jazz che il jazz lo suonavano per davvero: i Gershwin, gli Irving Berlin, i Duke Ellington.
La cantante danese Mette Juul, i chitarristi John Scofield e Joel Harrison, la cantante inglese Emma Smith, il baritono tedesco Thomas Quasthoff, il sassofonista Joshua Redman. Sono soltanto alcuni dei nomi che ultimamente si sono cimentati coi temi di Bob Dylan in chiave jazz. Potremmo quasi dire che oggi tutto ritorna lì dove era cominciato, se è vero che da ragazzo, come racconta lo stesso Dylan in Chronicles, l’acerbo Robert Zimmerman ascoltava molta musica jazz, e che alle sue orecchie il jazz di Roland Kirk e di Gil Evans suonava come della musica folk sofisticata. Bob Dylan a Bourbon Street è dunque una buona idea? Affidiamo a lui la lapidaria risposta: «tutto a New Orleans è una buona idea».
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