Non è un pensiero particolarmente originale, ma è vero: i film biografico-musicali non sono un granché. Malattia diffusa a Hollywood fin dalla metà del ventesimo secolo, sono diventati pandemia culturale con il ventunesimo: prima del Duemila, ti capitava ogni tanto, sullo schermo, un grottesco Jim Morrison o un dimenticabile Ritchie Valens (però con Brian Setzer che faceva Eddie Cochran, e salvava tutto), ma erano eventi relativamente rari. Poi, da quando Ray ha regalato un Oscar a Jamie Foxx, i biopic musicali si sono moltiplicati come piante infestanti, fino a diventare appuntamento fisso del calendario cinematografico hollywoodiano. Una routine all’interno della quale qualcuno cerca di inserire idee creative, soprattutto se bisogna raccontare uno che si chiama Williams: facciamo un film con una scimmia al posto di Robbie? O un Pharrell di Lego, perché no?
I risultati dei biopic musicali sono alterni dal punto di vista artistico, ma il pubblico sembra continuare ad apprezzarli: Rocketman, Straight Outta Compton, Elvis, Bob Marley: One Love… tutti sopra ai duecento milioni di incasso globale. Per non parlare del miliardo sfiorato da Bohemian Rhapsody qualche anno fa. Una scommessa con pochi rischi per i grandi studios, insomma. Soprattutto se si considera il fatto che solitamente non servono effetti speciali costosissimi, e spesso neanche una star di prima fascia come protagonista (Rami Malek e Taron Egerton non lo erano, tanto per fare due esempi).
Scarsi rischi (di essere smentito) anche per chi volesse immaginare la trama del prossimo biopic musicale, indipendentemente dal protagonista: facile prevedere che un giovane talentuoso dimostrerà grande potenziale musical/economico; verrà intercettato da un manager mellifluo che lo porterà alla fama; metterà in piedi un tour trionfale attraverso gli Stati Uniti o l’Inghilterra (Hollywood non guarda molto oltre il mondo anglosassone, di solito); diventerà un alcolizzato/tossicodipendente; lascerà la fidanzata/moglie; si innamorerà di un’altra; perderà il contatto con familiari e amici; diventerà triste. Finché, alla fine, farà un bellissimo concerto, e poi forse si riprenderà. O forse morirà. Perdonate l’esempio al maschile, ma effettivamente i minoritari esempi di film biografici che raccontano grandi musiciste introducono qualche variazione in questo schema, pur non discostandosene poi molto. Le biografie musicali appaiono tutte simili.
Nonostante questo, a volte vengono piuttosto bene.
A Complete Unknown ha già in partenza alcuni metri di vantaggio sulla concorrenza: parla di un genio (non di Robbie Williams), può contare sul volto del protagonista più desiderato di Hollywood, Timothée Chalamet (non su quello di una scimmia), ma soprattutto vede dietro la macchina da presa James Mangold, che nel 2006 ha aperto la strada al biopic musicale moderno raccontando la storia di Johnny Cash in Walk the Line – Quando l’amore brucia l’anima. Come quest’ultimo, A Complete Unknown è tutt’altro che rivoluzionario nella forma, eppure rappresenta un esempio di quel che Hollywood sa fare meglio: un film ben pettinato (nonostante qui i parrucchieri provino a scompigliare ad arte i capelli degli attori), con un’ambientazione affascinante, una fotografia di alta qualità, grandi performance degli attori, e la semplificazione di storia e pensiero che sempre si dedica al pubblico generalista, ma che diventa ancor più necessaria quando si devono raccontare parabole complesse in due ore o poco più (qui sono venti minuti in più, per la precisione). Semplificazione che non impedisce a Mangold di mettere insieme un racconto più che soddisfacente, e con le carte in regola per conquistare un pubblico intergenerazionale. I sessanta milioni portati a casa negli Stati Uniti finora sembrano confermare questa impressione, in attesa dei dati europei.
In una delle prime scene di A Complete Unknown Bob Dylan riceve in dono dalla sua fidanzata uno scritto di Dwight MacDonald, intellettuale anarchico newyorchese ancora noto (ok, poco) oggi per aver coniato la definizione di “midcult”, per definire quei prodotti della cultura di massa che si fingono invece cultura alta. Chissà cosa avrebbe scritto, dell’epoca dei booktoker. Ma non è questo, di cui voglio parlare: il punto è che è una delle tante scene che immediatamente lasciano nella mente dello spettatore l’impressione che siano molte, le licenze creative prese da Mangold e dallo sceneggiatore dylanofilo Jay Cocks, già collaboratore di Martin Scorsese e quindi garanzia di attenzione e qualità – se non altro perché Scorsese toglierebbe il saluto a chiunque non offrisse un buon servizio al suo mito Bob Dylan. Qualità che non impedisce, appunto, di inventare, e di allontanarsi dalla verità storica raccontata nel libro che fa da fonte principale per il film, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica di Elijah Wald (in italiano per l’editore Vallardi).
Gli esempi sono tanti, e basta una breve ricerca per trovare elenchi esaustivi di ciò che è plausibile e ciò che lo è molto meno. Così, ecco la sopracitata fidanzata che non si chiama Suze Rotolo ma Sylvie Russo – pare che il cambiamento sia stato richiesto dallo stesso Dylan, per «preservare la privacy di Suze» – anche se il personaggio corrisponde senza dubbio all’identikit del suo storico amore dei primi Sessanta, artista e attivista, con lui sulla copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan. Ecco che il giovane Dylan arriva per la prima volta a New York da solo: nella realtà, era con il suo amico Fred Underhill, che lo avrebbe accompagnato attraverso quel freddissimo inverno del 1961. Ecco che il ragazzo incontra Pete Seeger al capezzale di Woody Guthrie, e finisce per cantar loro proprio Song to Woody: una canzone che avrebbe composto solo in seguito a quei primi incontri. Ecco che Dylan sente alla radio la notizia della crisi dei missili di Cuba, scrive Masters of War in un pomeriggio, la esegue la sera stessa nel locale in cui capita per caso Joan Baez, i due finiscono a letto. La mattina Bob si sveglia accanto a Joan, scopre dal telegiornale che i russi non hanno attaccato, dice «Ok, questo è quanto», spegne la tv. James Mangold d’ora in poi dovrebbe far scrivere sui suoi biglietti da visita (ammesso si usino ancora): regista, e maestro della sintesi.
Tra sintesi e invenzioni, insomma, si richiede a chi guarda qualcosa di diverso dalla tradizionale sospensione dell’incredulità, quella che ad esempio fa accettare senza domande l’ipotesi che un ragazzo punto da un ragno radioattivo sviluppi la capacità di arrampicarsi sui muri e finisca per sposare Zendaya. In A Complete Unknown allo spettatore viene chiesto di abbracciare con gioia il mistero dylaniano, quello di un uomo che ha messo la sua integrità artistica davanti a tutto, e ha deciso che per farlo doveva nascondere l’uomo dietro l’arte, e spargere una cortina fumogena di clamorose balle sulla sua vita: in sessant’anni di carriera, ha raccontato ai giornalisti enormità di ogni genere sul suo passato. Perfino quella di essersi prostituito, ai tempi del Greenwich Village: pare che la leggenda l’abbia messa in giro mentre lavorava alla colonna sonora di Un uomo da marciapiede di John Schlesinger, ispirato dal personaggio interpretato da Jon Voight. (Per la cronaca, Dylan non sarebbe riuscito a produrre la sua canzone in tempo per la produzione del film, e l’avrebbe inserita in Nashville Skyline: Lay, Lady, Lay sarebbe diventata uno dei suoi classici). Ma torniamo al mistero dylaniano.
È Robert Allen Zimmermann, il “Complete Unknown” – completo sconosciuto, ignoto – del titolo preso di peso dal ritornello di Like a Rolling Stone. Del resto la sua capacità di nascondersi era già stata celebrata da Todd Haynes nello splendido Io non sono qui. Imperscrutabile, Dylan ha convinto il mondo di essere lui, il primo e unico interprete del ruolo di Bob Dylan. Forse perché è l’unica incontrovertibile verità in questa storia. Così, lo stesso Timothée Chalamet ha fatto la scelta più semplice, ma anche la più giusta: interpretare il personaggio-Dylan così come è passato alla storia di quegli anni, senza cercare improbabili verità nuove. Così, nel film è esattamente l’icona che ci aspettiamo: sciarpa, sigaretta in mano, occhiali da sole, motocicletta, bastardo con le donne e con gli amici come si può essere solo a vent’anni (oddio, forse i geni come Dylan ottengono un lasciapassare vita natural durante, non so). L’unica differenza: probabilmente, Dylan era un po’ meno bello. Chalamet invece è sempre/comunque di una bellezza sfolgorante, e non stupisce che Mangold abbia voluto metterlo al centro di un triangolo amoroso, tra Sylvie/Suze interpretata da Elle Fanning e Joan Baez interpretata da Monica Barbaro (la più convincente del cast di supporto, insieme a Edward Norton nei panni di Pete Seeger). Come dire: anche chi non sa chi sia Bob Dylan, ma viene al cinema solo per lo star power del protagonista, avrà di che rimanere soddisfatto. I critici diranno che si tratta del solito surrogato hollywoodiano, e sarà difficile dar loro torto, visto che in effetti il racconto è a dir poco sterilizzato: il sesso è a malapena suggerito, le sostanze stupefacenti non esistono (nella New York degli anni Sessanta!). Ma è il miglior surrogato che budget di 70 milioni di dollari possa comprare.
Poi, certo, non è qui che troveremo risposte. Men che meno all’unica domanda che conta, e che è la stessa che ci facciamo davanti a quasi tutti i film che raccontano le leggende di questi uomini straordinari. E cioè: ma come hanno fatto? Come ha fatto, Bob Dylan, a entrare nel giro newyorchese, rivoluzionare la musica folk, a trasformarsi in un simbolo assoluto del secolo americano, a creare, bruciare, far rinascere, rendere eterno il suo mito nel breve spazio di quattro anni? Come ha fatto quel ragazzino di provincia a scrivere decine di capolavori tra Don’t Think Twice, It’s All Right e Ballad of a Thin Man (selezione mia, ma dite altre due canzoni qualsiasi, sarò d’accordo)? Registi e attori ci offrono sempre la stessa non-risposta: era destino, era naturale, è successo, è così. Forse è l’unica sensata. Il resto rimane un completo sconosciuto, un perfetto mistero.
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