Musica folk-rock

“Blood on the Tracks”: un Dylan indeciso firma il capolavoro

Cinquant’anni fa usciva il quindicesimo album del cantautore di Duluth. Un disco nato in un periodo difficile dal punto di vista personale e artistico

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Dylan negli anni '70

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Di: Riccardo Bertoncelli 

Cinquant’anni fa Bob Dylan non era il monumento inscalfibile di oggi. Era un mito, certo, ma più per le prodezze della sua prima vita, fra l’esordio e Blonde On Blonde, che per quanto aveva fatto dopo. Era messo in discussione per tanti motivi, fondati o meno; nostalgia di sicuro, ma anche scelte discografiche controverse, dalla svolta country di Nashville Skyline all’ambiguità di New Morning, per non parlare di quelle due antologie che avevano scatenato l’ira dei più, Self Portrait e Dylan. Il 1975 fu l’anno del riscatto, quando nel pieno di una crisi esistenziale (la fine del rapporto con la moglie Sarah, che gli aveva dato in pochi anni quattro figli) trovò energia e voglia per rimodellare genialmente il sound e lanciarsi in un’avventura fantastica come la “Rolling Thunder Revue”.

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I 50 anni di Blood on the Tracks

Montmartre, Rete Due 20.01.2025, 17:35

Cinquant’anni fa precisi. 20 gennaio 1975. La Columbia pubblica Blood On The Tracks, quindicesimo LP della serie iniziata nel marzo 1962. Pur in un momento difficile della sua vita, o forse proprio per quello, Dylan è carico, pieno di idee, e a pochi mesi dall’uscita di Planet Waves, il disco che lo ha riconciliato con gli appassionati, è già pronto per una nuova opera. Immagina un disco forte, che lo rappresenti veramente, diario sincero e perfino spietato di un’anima in pena. Ha passato le ultime settimane a scuola da un eccentrico insegnante d’arte, Norman Raeben, che non ha migliorato la sua scarsa vena di pittore ma gli ha schiuso nuovi orizzonti di scrittura. «Ha riunito in me testa, mani e occhi», confesserà tempo dopo in una intervista, «in modo da permettermi di fare consciamente ciò che percepivo inconsciamente». 

Per Dylan quel nuovo modo è un dono celeste, perché le storie di vita che ha in mente sgorgano meglio se avvolte in una ragnatela ambigua ed enigmatica in cui passato, presente e futuro si mescolano, alla maniera della pittura cubista. Non intende spendere un disco di canzoni generiche e temi astratti, vuole parlare di sé, svelare le sue pene senza infingimenti, e sceglie un titolo trasparente da cui si capisce che è un uomo ferito: Blood On The Tracks, “Sangue sulle piste”. Anni più tardi si impunterà a negare quella lettura dell’album, giurando e spergiurando con un paradosso dei suoi che non di Sara e dell’imminente divorzio dicevano i testi. «Registrai perfino un intero album basato sui racconti di Cechov. I critici pensarono che fosse autobiografico, tanto meglio». 

I testi scorrono bene, è la musica che preoccupa Dylan. È indeciso, ondivago, accarezza l’idea di un disco elettrico ma poi, alla prima seduta, agli studi Columbia di New York, registra sei canzoni (dolcissime, bellissime) da solo alla chitarra. Non va, il suono di voce e chitarra acustica gli pare piatto, monotono. Immagina qualcosa di più sofisticato senza perdere semplicità e naturalezza, e per quello convoca in studio il banjoista Eric Weissberg e il suo quintetto, Deliverance, registrando altri splendidi nastri. Ancora niente, Bobby accomiata anche i Deliverance trattenendo solo il bassista Tony Brown, che richiama il giorno dopo per un altro giro: solo loro due, voce chitarra armonica e basso, più occasionali interventi del tastierista Paul Griffin. Così le cose paiono girare secondo la luna giusta, con un suono dolce, essenziale che sostiene testi ora amari ora crudeli, il chiaroscuro di speranza, delusione, gioia, risentimento nella mente agitata dell’autore.

Le sedute finiscono il 19 settembre 1974. Vengono selezionati dieci brani tra la pila che si è accumulata e preparato un test pressing per le radio, programmando l’uscita per Natale. Tutto a posto? Macché. Il test pressing è finito anche nelle mani di Dylan che, riascoltandolo, si è fatto prendere da nuovi dubbi. Gli sembra tutto piatto, con poca vita, e come prima reazione sospende l’uscita. Chi ha lavorato in studio con lui è sbalordito ma Bobby non demorde e, tornato a casa dai suoi per Natale, fa ascoltare il disco al fratello minore David, che gli dà ragione. A quel punto, colpo di scena; David prenota per un paio di giorni il miglior studio di Minneapolis e Bobby, con turnisti locali, rimette mano ai brani che meno lo convincono, cinque in tutto. Cinque sono anche i musicisti, due chitarre, tastiere, basso e batteria, più l’indaffarato leader che sembra aver scordato la voglia di semplicità degli inizi e si diffonde in dettagli e abbellimenti. 

Il 30 dicembre è tutto finito, l’album uscirà tre settimane più tardi.

Nel suo fare e disfare Dylan qualcosa ha rovinato (Lily, Rosemary and the Jack of Hearts, visionario testo degno di Desolation Row cantato come una marcetta da boy scout) ma il nocciolo dell’album è rimasto intatto, e il chiaroscuro che si diceva splende meravigliosamente: Simple Twist of Faith, Buckets of Rain, Tangled Up in Blue, Idiot Wind, If You See Her Say Hello e You’re a Big Girl Now entrano di diritto nella stanza dei tesori dylaniani e accompagneranno l’artista in scena per tutta la sua lunga storia.

A distanza di cinquant’anni l’album non ha perso un grammo della sua forza ed è sempre degno delle parole che un grande critico, Greil Marcus, spese al momento dell’uscita. «Blood On The Tracks è un album di ferite; è al tempo stesso un racconto della guerra di un avventuriero con una donna e con se stesso, e un tentativo estenuante di piegare la memoria, le fantasie e le paure dell’amore e della morte al servizio di un artista che si sforza di rimediare a una catastrofe traendone bellezza. È un disco grandioso: cupo, pessimista, inquietante, confezionato in maniera grezza e pieno della disperazione più profonda che Dylan abbia mai rivelato».

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