Il 17 febbraio 1965, in uno scantinato del quartiere Coppedè della Capitale, veniva inaugurato il Piper Club, un locale destinato a fare la Storia per aver dato forma alla prima rilevante cultura giovanile in Italia, plasmata attorno alla musica beat che funzionò da collante in grado di catalizzare speranze e utopie della generazione nata dopo la guerra. Fucina dei nuovi fermenti musicali, il Piper ha lanciato artisti, mode e balli in grado di contagiare anche i cosiddetti “matusa” giunti a curiosare e mescolarsi, beati, nella calca. Il Piper Club – Tempio del Beat dal 1965 (le immagini, le storie, i protagonisti), a firma di Corrado Rizza (Ed. Volo Libero), racconta i primi sessant’anni della mitica proto-discoteca che ha battezzato la nascita del rock in Italia. Il libro è un ricco catalogo di testimonianze, documenti d’epoca, aneddoti e immagini (oltre 200) quasi del tutto inedite che rendono un doveroso omaggio a un’istituzione centrale nella storia del costume italiano e lo fa a ritmo di shake: testi brevi, leggeri ed evocativi che danno sostanza a un racconto fotografico sorprendente. Un “come eravamo” commovente, un album di famiglia per chi ha frequentato le cronache della popular culture di casa dai tempi di Bandiera Gialla (Arbore e Boncompagni erano assidui frequentatori del locale di via Tagliamento) ai primi vagiti della moda hippy e della psichedelia. Da Patty Pravo a Mita Medici (“le ragazze del Piper”), dai Rokes all’Equipe 84 (i primi a esibirsi), dai Procol Harum agli allora sconosciuti Pink Floyd, sul palco del Piper hanno sfilato – da protagonisti o da avventori (Gene Kelly, i Rolling Stones) – gli artisti di belle speranze che facevano capo alla RCA, il gotha del cinema italiano, i VIP, la Roma bene e la meglio gioventù di allora, con il codazzo di paparazzi intenti a immortalare gesti e sguardi che oggi ritroviamo nel libro assieme a gustose playlist preparate dai deejay di allora. E se l’inaugurazione del locale fu contestata dalle donne comuniste come “un mastodontico ingranaggio commerciale” che spacciava per ribellione quel che altro non era che “rivolta prefabbricata” (così si esprimeva la rivista Noi donne), l’Amarcord curato da Rizza spegne definitivamente quelle fiamme che di lì a poco avrebbero appiccato il fuoco a ben altre istituzioni.
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