Da fan a segretaria dei suoi idoli. Freda Kelly è stata collaboratrice dei Beatles dal 1962 al 1972. Un lavoro ottenuto e mantenuto nonostante le resistenze del padre, trovando di volta in volta la soluzione che le permettesse di proseguire questa incredibile avventura professionale. Dieci anni trasformati in un documentario, Good Ol’ Freda. Kelly è stata ospite dell’edizione 2025 dei Beatles Days bellinzonesi. È in quell’occasione che ha risposto alle domande del Quotidiano.
Come sei diventata segretaria di Brian Epstein e poi responsabile del fan club?
«Lavoravo vicino a Matthew Street, dove c’è il Cavern Club. I ragazzi con cui lavoravo mi dissero che al Cavern c’era musica all’ora di pranzo. Così un giorno decisi di andarci con loro e, per fortuna, stavano suonando i Beatles. Rimasi sbalordita e decisi che volevo vederli ancora.
Due giorni dopo scoprii che avrebbero suonato di nuovo a pranzo, e da allora cominciai ad andarci sempre. Abitavo nella zona sud di Liverpool, quindi andavo ai concerti soprattutto da quelle parti, perché era negli anni ‘60, non avevamo una macchina né niente.
A pranzo la sala della band era sempre aperta, quindi si poteva entrare e parlare con loro. Pete Best [batterista della band prima di Ringo Starr] era ancora con loro all’epoca. Potevi chiedergli di dedicare una canzone a un’amica per il suo compleanno, oppure semplicemente chiacchierare.
All’epoca erano ancora gestiti da un certo Alan Williams, non da Brian Epstein. Poi andai a un’esibizione dei Beatles e Brian Epstein era lì. Venne da me e mi disse che li avrebbe gestiti lui, avrebbe aperto una propria azienda, la NEMS Enterprises. Stava prendendo una segretaria dal negozio che gestiva, ma gli serviva un’altra segretaria. E mi chiese se mi interessava il lavoro. Io lo guardai e dissi: “Oh, non so…”. Mi disse di pensarci e di andare a trovarlo il mercoledì successivo.
Poi decisi di provare. Così cominciai a lavorare come sua segretaria. Non gestivo il fan club all’inizio. Mi occupavo delle buste paga, delle lettere al dittafono, dei contratti, tenevo l’agenda… facevo un po’ di tutto. Andavo in banca con i soldi, gli prendevo i panini.
Poi scoprii che esisteva un fan club, gestito da una ragazza chiamata Bobby Brown. Le chiesi se voleva una mano, così iniziai ad aiutarla. Poco dopo, quando uscì Love Me Do in ottobre, Bobby decise di lasciare per stare con il suo ragazzo, che poi divenne suo marito. Brian Epstein mi disse: “Visto che aiutavi Bobby, ora puoi gestirlo tu”. Così mi trovai anche a dirigere il fan club. Fu tutto un caso, trovarsi nel posto giusto al momento giusto».
E come l’hai detto alla tua famiglia? A tuo papà?
«Quando finii il college, avevo un lavoro in banca. Quando dissi a mio padre che lasciavo la banca, non la prese affatto bene. Mi chiese subito se c’entravano i Beatles. Non gli mentii, ma nemmeno gli dissi tutta la verità: gli dissi solo che sarei stata segretaria alla NEMS. La verità, in fondo. Ma lui andò alla NEMS di nascosto, e quando tornai a casa quella sera mi disse: “Quel lavoro ha a che fare con i Beatles. Non lo prenderai”. E io gli risposi: “Ho già dato le dimissioni”.
Allora lui disse: “Se accetti quel lavoro, durerà solo un anno”. Io colsi la palla al balzo e dissi: “Allora posso fare quest’anno?” Avevo 16 anni, quasi 17. Pensai: “Se dura solo un anno, a 18 anni torno in banca”. Così mi diede il permesso. E quell’anno divenne dieci».
Freda e i Fab Four
Quando i Beatles si trasferirono a Londra, dovesti decidere cosa fare…
«Sì. Dissi a mio padre che sarei andata a vivere a Londra. Brian Epstein voleva portare con sé parte dello staff. Chiese a me e alla receptionist, che era mia migliore amica, di andare. Avevamo già organizzato tutto per condividere un appartamento. Ma mio padre mi disse: “Tu non ci vai”.
Ci pensai su. Avevo più di 18 anni, avrei potuto andare. Ma non volevo farlo soffrire, e non stava bene. Così diedi le dimissioni. Brian Epstein all’inizio non mi sentì nemmeno, nessuno dava mai le dimissioni lì. Quando gli spiegai che era perché mio padre non voleva che andassi, mi chiese se avevo un altro lavoro. Gli dissi di sì. E finì lì.
Non dissi nulla ai Beatles né ai loro genitori. Ma poi Brian andò da mio padre. Perché quando lo disse ai Beatles e ai genitori, nessuno voleva che me ne andassi. Cercò di convincerlo, ma mio padre fu irremovibile. Però gli concesse che potessi andare a Londra ogni sei settimane: partivo il venerdì, lavoravo lì, poi il sabato uscivo con amici o a volte anche con i Beatles, e tornavo la domenica. Continuai così finché mi sposai.
Poi nel 1968 mi chiesero di trasferirmi a Londra per lavorare alla Apple [l’etichetta discografica dei Beatles]. Mio padre era già morto. Ma dissi di no: avevo un marito, un bambino, quattro cani, tre gatti. E chi mi avrebbe affittato un appartamento con dei cani lupo irlandesi?
Alla fine accettarono di pagarmi una tata. Assunsi mia suocera e tornai a lavorare con loro finché aspettavo mia figlia, nel 1972. Poi lasciai. Mi trasferii in un villaggio vicino Liverpool, avevo un altro cognome, nessuno sapeva chi fossi. Non feci più nulla legato ai Beatles… finché nacque mio nipote.
Mia figlia mi chiese di fare qualcosa, perché non avrebbe mai saputo cosa avessi fatto da giovane. Dissi: “Può leggere People One, ci sono le mie lettere”. Poi un’amica americana mi disse che suo nipote, appena laureato, aveva fatto un documentario sul calcio. Propose di farne uno su di me. Io dissi: “Non so da dove iniziare”. Ma lui venne a casa mia, lavorammo tutto un weekend. Poi lo mise al South by Southwest Festival in America. Io non volevo. Pensavo fosse solo per mio nipote. Ma lo accettarono. E da lì è partito tutto».
Quante lettere ricevevi? Le hai mai contate?
«Ho una foto in ufficio con la posta sparsa sul pavimento. Quella era solo la posta di un giorno. Non le ho mai contate. All’inizio erano poche. Poi, dopo Love Me Do e Please Please Me, aumentavano sempre di più. Il postino arrivava con pacchi legati da elastici, poi con i sacchi.
Mio padre era infuriato perché avevo dato il mio indirizzo di casa! Quando arrivammo a 40’000 membri nel fan club, il capo ufficio stampa disse di fermare le iscrizioni. Avevo segretarie in altri Paesi, e in ogni contea inglese, per smistare la posta».
Qual è stata la richiesta più strana che hai ricevuto in una lettera?
«All’inizio una ragazza chiese se potevo tagliare un ciuffo dei capelli di Paul per lei. Pensai fosse strano. Ma poi ne arrivarono altre simili. Una mia cugina aveva una ciocca del figlio in un medaglione, allora capii che era una cosa comune.
Li portavo sempre dallo stesso barbiere, vicino all’ufficio. Un giorno due di loro andarono, io li accompagnai. Mentre il barbiere tagliava i capelli, chiesi di spazzarli io. Li infilai in una busta e chiesi di firmarla. Feci così per un po’.
E sì, potete dire che diventai una ladra. Andavo a casa dei genitori, un giorno vidi una camicia di Paul e pensai: “Questa non gli mancherà”. Me la infilai in borsa.
Neil Aspinall [assistente personale dei Beatles] mi aiutava. Quando Ringo rompeva una bacchetta, me la dava. Se George rompeva una corda, la prendevo. Così spedivo questi oggetti ai fan.
Una volta ricevemmo una scatola con dei buchi. Dentro c’era un enorme ragno nero. Lo portai alla Scuola Tropicale di Medicina a Liverpool. Poi, un Beatles disse che gli piacevano le jelly babies, e iniziarono a spedircene sacchi. Le davamo all’ospedale pediatrico».
E la richiesta più comune?
«Una foto autografata. Era facile per noi: avevo ragazzini di 14-15 anni che ci aiutavano, anche alcuni cugini dei Beatles. Preparavano le buste, ci mettevano foto e bigliettini.
Per le lettere dall’estero era più facile: scrivevano il proprio indirizzo. In Germania, Russia, America. Gli inglesi no. I fan potevano anche venire in ufficio. Ma non si sedevano gratis: se venivi, lavoravi. Anche solo a ritagliare indirizzi o infilare le foto.
Se qualcuno chiedeva una firma di John, ma passava Paul, mandavamo la firma di Paul con un biglietto: “So che volevi John, ma è passato Paul”. Mai nessuno ce le ha restituite».
Quanto ci tenevi a tutto questo?
«Tantissimo. Non lo dico per dire. Credo sia stato importante che fossi una fan come loro. Quando scrivevano, pensavo a come mi sarei sentita io. Se avessi ricevuto una ciocca di capelli, o un bottone del maglione di Paul, sarei stata felicissima».

La segretaria dei Beatles
Il Quotidiano 13.06.2025, 19:00