Eventi virali, ieri e oggi.
2025, primo aprile. Non si tratta di pesce. Un profilo Instagram condivide un’immagine: quattro attori vestiti di nero, in piedi uno accanto all’altro. È la conferma ufficiale dell’uscita di The Beatles - A Four-Film Cinematic Event. Come recitano titolo e sottotitolo, quattro film destinati a uscire insieme nelle sale ad aprile 2028 (il marketing si muove lievemente in anticipo, sì). Diretti dal regista premio Oscar Sam Mendes, protagonisti quattro degli attori sotto la trentina più noti d’oltremanica: Paul Mescal (famoso soprattutto per la serie Normal People) nel ruolo di Paul McCartney, Barry Keoghan (di Saltburn) in quello di Ringo Starr, Harris Dickinson (di Babygirl) in quello di John Lennon e Joseph Quinn (di Il Gladiatore II) in quello di George Harrison.
1964, 6 luglio. Il giorno più caldo dell’estate. Shaftesbury Avenue, pieno West End londinese. Il film d’esordio dei Beatles, A Hard Day’s Night, viene proiettato in anteprima mondiale al cinema London Pavilion. Diretto dall’allora poco più che trentenne Richard Lester, protagonisti Paul McCartney nel ruolo di Paul McCartney, Richard Starkey in quello di Ringo Starr, John Lennon in quello di John Lennon, George Harrison in quello di George Harrison.
Affinità e divergenze tra i due eventi: oggi la viralità si misura in visualizzazioni e cuoricini, trecentomila spolliciati in poche ore; a metà degli anni Sessanta, con i dodicimila fan che bloccano fisicamente il traffico nella capitale inglese. E se dietro i cuoricini del ‘25 potrebbero esserci botfarm prezzolate dalla Sony, i fan del ’64 sono senza alcun dubbio molto concreti.
Sono tutti privi di biglietto, perché la sala è esaurita. Chi riesce a entrare, capisce subito che i Beatles sono ormai stabilmente tra le persone più importanti d’Inghilterra: lo testimonia il fatto che ospiti d’onore della serata sono due altezze reali, la principessa Margaret e suo marito Antony Armstrong-Jones, conte di Snowdon, entusiasti di essere fuggiti dalla gabbia dorata di Kensington Palace per una sera. Dopo la proiezione, after-party al Dorchester Hotel di Park Lane, a cui partecipano, nonostante si siano presentati senza invito, anche Keith Richards, Brian Jones e Bill Wyman. Sono tempi in cui, per Beatles e Rolling Stones, anche i reali fanno qualche eccezione.
Ma non vorrei divagare troppo (che pure è abbastanza facile, quando si parla della Londra di quell’epoca).
Arrivo al punto: Sam Mendes e i suoi quattro lungometraggi, da vedere tutti insieme in sala in una maratona di binge watching, potranno mai rappresentare la rivoluzione culturale, musicale e cinematografica che i film dei Beatles hanno rappresentato negli anni Sessanta, da A Hard Day’s Night in poi? Lui lecitamente lo spera, noi razionalmente siamo portati a essere un po’ più scettici.
Per dire. A Hard Day’s Night è stato tappa fondamentale del percorso che ha portato alla creazione dei videoclip moderni, in un momento in cui l’industria discografica si trovava davanti un problema non da poco: le neonate popstar rimanevano, nonostante tutto, esseri umani. E come tali, soggette alle limitazioni spaziali e temporali del mondo reale. Visto che all’epoca internet, i social network e l’intelligenza artificiale non erano presenti neppure nei sogni degli scrittori di fantascienza, bisognava moltiplicare in altri modi la loro presenza in scena. Ad esempio, dando maggiore spazio alla musica pop nella programmazione televisiva: proprio nel 1964 debuttava in Gran Bretagna Top of the Pops, che a sua volta seguiva l’esempio di analoghe trasmissioni statunitensi come American Bandstand (sulla ABC già nel 1957). Tutti questi programmi presentavano performance dal vivo o, più frequentemente, usavano la tecnica del lip-sync in playback (che non rappresentava certo una novità, visto che era già ampiamente usata nel cinema hollywoodiano almeno da una trentina d’anni). La presenza fisica delle band nel corso di queste trasmissioni riportava però ai già citati problemi logistici, e per ovviare a queste difficoltà i network iniziarono a costruire piccole library di performance musicali registrate. Un’altra svolta epocale, che aiutò le grandi star dell’epoca (a cominciare da Beatles e Rolling Stones), a essere presenti e visibili in tutto il mondo senza doversi sobbarcare continui viaggi. Le band potevano così dedicarsi principalmente alla musica, senza perdere colpi dal punto di vista della promozione. Soprattutto, l’uso di performance registrate si tradusse in un notevole risparmio di denaro per le case discografiche. Le quali da parte loro si rallegrarono, ma generalmente non pensarono a investire granché nel miglioramento dei clip, quasi esclusivamente interessate al rapporto tra costi e benefici della promozione effettuata. Strano, questa non l’avevamo mai sentita.
Alla lunga, però, le major si resero conto che la televisione non poteva bastare, e così anche il grande schermo venne coinvolto nella corsa al videoclip. Altrettanto ovviamente, fu il gruppo più rappresentativo della musica pop del Novecento, il primo ad essere protagonista di film musicali a scopo promozionale.
Ed eccoci tornati a A Hard Day’s Night (a cui fu affibbiato, da chissà quale manager per la distribuzione nei paesi italofoni, l’improbabile titolo Tutti per uno) del 1964 e a Help! del 1965, entrambi diretti da Richard Lester, che rappresentano una tappa fondamentale nello sviluppo del linguaggio del videoclip.
A Hard Day’s Night è un vero e proprio mockumentary con elementi di commedia, che documenta una giornata-tipo nella vita del gruppo, tra incontri con i fan, interviste e spettacoli dal vivo. L’importanza della trama era tuttavia minore rispetto a quella delle sequenze musicali, sette canzoni che venivano messe in scena tramite l’uso di elementi formali che in seguito sarebbero diventati parte integrante del linguaggio del videoclip moderno (e in effetti, queste sequenze furono estrapolate spesso dal contesto e riproposte dal mezzo televisivo come forme brevi a sé stanti).
La straordinaria scioltezza e il ritmo di questi numeri musicali erano dovuti anche, concretamente, al fatto che per ognuno fu realizzato un singolo story-board, procedimento fino a quel momento usato soprattutto da animazione e pubblicità. Non stupisce l’uso di questa particolare tecnica realizzativa, considerato che Richard Lester proveniva proprio dal mondo della pubblicità televisiva: negli anni Settanta avrebbe girato anche gli spot dell’aranciata “Oransoda” finiti su Carosello, classico della TV italiana.
Le sequenze musicali di A Hard Day’s Night sono straordinarie nel loro anticipare il videoclip moderno, grazie ad esempio al montaggio che segue le pulsazioni ritmiche del brano (“on the beat”), in seguito usato e abusato, tanto da diventare uno degli elementi caratteristici dello stereotipo del videoclip. Questo sistema, tra l’altro, era utile anche a semplificare notevolmente il lavoro del montatore, che segnava su una “coda” di pellicola trasparente i cambi di scena, in corrispondenza con i battiti ritmici: avendo a disposizione il riferimento del beat, questa operazione poteva avvenire più velocemente, e garantiva almeno una fondamentale corrispondenza fra immagini e musica.
Non solo. Di fondamentale importanza è anche il modo “creativo” di trattare le inquadrature – spesso prese da punti di vista arditi e inusuali, con forti contrasti tra primissimi piani e campi molto lunghi. Questa tecnica, in qualche modo, contribuiva a mettere il suono in una posizione privilegiata rispetto all’immagine: il suono è, in fondo, un flusso che ci circonda, non necessita di una posizione frontale del fruitore per ottimizzare l’ascolto. È il contrario di quello che accade con lo sguardo: per vedere qualcosa nel modo migliore, per averne l’idea più completa nel più breve tempo possibile, lo spettatore è certamente avvantaggiato dalla posizione frontale. Così, in A Hard Day’s Night le strategie visive sembrano imitare le leggi percettive del sonoro: la posizione frontale, quella che permette di vedere la scena nel modo più facile e “tradizionale”, non è necessaria. L’immagine insegue il suono, e di conseguenza, l’esperienza del film musicale (e poi del videoclip) è più “simile” al sentire che al vedere. O qualcosa del genere. In ogni caso, qualcosa di travolgente. E, oggi possiamo dirlo, di rivoluzionario.
Riuscirà, Sam Mendes, a trasformare i suoi quattro biografilm in un evento cultural/musicale capace di un impatto almeno paragonabile a quello di A Hard Day’s Night? È presto per dirlo. Per ora, ha dimostrato che i Beatles sono ancora una forza capace di generare enorme interesse, in uno spettro che va dal chiacchiericcio curioso all’attesa spasmodica. Visti i sessant’anni passati da quella serata nel West End di Londra, come risultato non è poi male.
“The Beatles: A Four-Film Cinematic Event”
Alphaville 11.04.2025, 12:35
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