Musica italiana

Dentro l’universo di Francamente

Cantautrice e filosofa, all’anagrafe Francesca Siano, si è distinta con la partecipazione a X Factor 2024. La incontriamo a Milano, dove sta incidendo un nuovo disco

  • 17 aprile, 14:57
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Francesca Siano, in arte Francamente

Di: Raffaele Pedrazzini 

Francamente, il tuo nome d’arte ha un forte impatto. Diretto, evocativo. Come è nato e cosa rappresenta per te? Ci vuoi raccontare come ti sei avvicinata alla musica?

«Il nome Francamente nasce da un gioco di parole. Da un lato l’avverbio, il parlare in modo diretto e senza filtri; dall’altro, la possibilità di leggerlo come Franca mente, dove Franca, il nome con cui mi chiamano le persone più vicine, diventa soggetto. E allora il significato si rovescia: Franca sta mentendo. Quest’ambiguità mi affascinava perché riflette qualcosa in cui credo profondamente: non l’idea di una coerenza rigida, monolitica, ma piuttosto sfaccettata, intrinseca di sfumature, di contraddizioni che non si escludono ma si completano. Le persone, in fondo, sono impasti complessi e meravigliosi, ed è proprio nella tensione tra convinzioni opposte che spesso si trova la (loro) verità più autentica. Alla musica mi sono invece avvicinata quasi per gioco. In casa mia gli strumenti erano giochi tra gli altri giochi. La musica è entrata così, senza clamore, senza dichiarazioni d’intenti, e a poco a poco ha cominciato a incorniciare la mia vita. Da passatempo è diventata linguaggio, strumento di relazione, il modo più naturale per stringere legami, per conoscere l’altro».

Sei laureata in filosofia: quanto questo percorso ha influenzato il tuo modo di scrivere e “concepire” la musica?

«I miei studi sono stati fondamentali, non solo nel modo in cui concepisco la musica e la scrittura, ma anche nel darmi una struttura critica per avvicinarmi sia alla musica stessa, sia alle questioni sociali. Una formazione che non è stata semplice ornamento, ma strumento attraverso cui interrogare il mondo, atto a decifrarne anche le dinamiche di potere e i loro riflessi nella cultura. Alle superiori lessi La banalità del male (1963), saggio di Hannah Arendt nato dal reportage che realizzò per il The New Yorker sul processo di Adolf Eichmann, e ricordo il momento in cui mi dissi: “Ecco cosa voglio fare nella vita”. Volevo diventare una politologa, volevo comprendere i meccanismi attraverso cui il pensiero si trasforma in ideologia, in dogma, in sistema. Una frase che è diventata la mia bussola morale, che campeggia anche sulla facciata dell’ex Casa del Fascio di Bolzano, è “Nessuno ha il diritto di obbedire” [Arendt riporta a Kant, smascherando il modo in cui Eichmann lo aveva distorto per giustificare la propria cieca esecuzione di ordini durante l’epoca nazista, ndr]. Quello che Arendt ci dice, in fondo, è che in nessun momento possiamo sottrarci al pensiero critico, perché farlo significa smettere di essere umani. L’essenza stessa dell’umano è il pensiero, e con lui la sua capacità di interrogare il reale. È qui che la lucidità della Arendt tocca il cuore della modernità, un tempo in cui la reazione politica è spesso guidata da leader forti, carismatici, che offrono pacchetti ideologici preconfezionati, idee già pronte, che non richiedono elaborazione, ma mera adesione. Ed è così che il pensiero si atrofizza, il dissenso si spegne, e dietro a ogni bandiera si corre senza neanche sapere più perché».

La tua musica mescola cantautorato ed elettronica. Quali sono le tue principali influenze musicali?

«Ci sono due influenze che per me sono state fondamentali. La prima è il mondo dell’elettronica, che ho scoperto a Berlino, insieme alla cosiddetta cold wave, un movimento che negli anni Settanta e Ottanta non solo ha attraversato la Germania Est ma anche la Svizzera, generando sonorità ipnotiche e minimali, intrise di un’estetica che definisco profondamente evocativa. La seconda è il cantautorato italiano dello stesso periodo. Alice, Giuni Russo, Franco Battiato: non solo musicali, ma punti di riferimento esistenziali. Ogni volta che ho letto le loro interviste o i loro scritti, ho ritrovato un’umiltà disarmante, una consapevolezza profonda di cosa significhi fare ed essere artisti».

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  • Loris Prandi

La tua esperienza tra Italia e Berlino ha segnato il tuo percorso artistico. A suo tempo avevi affermato: «Tante persone vivono nella bellezza della complessità. Siamo esseri sfaccettati, poligoni. Mi spaventa quando si crede che ci sia un solo modo di fare le cose». Cosa ti ha portato ad abbracciare questa filosofia di vita? E come si traduce nella tua musica?

«Scoprire in giovane età un’identità e un orientamento sessuale che si discostano dalla norma, e soprattutto averlo fatto in un contesto capace di accogliere e sostenere, è stata una fortuna. Questo mi ha portata, fin dall’adolescenza, a mettere in discussione l’idea stessa di norma: cosa significa essere donna o uomo? Chi decide cosa ci deve piacere, come dobbiamo vestirci, quali comportamenti sono accettabili? A questa consapevolezza si è sovrapposta Berlino, che per me è un laboratorio vivente di intersezionalità. Attraversarla significa attraversare storie: vite stratificate, fughe, resistenze. C’è chi arriva in cerca di un lavoro, ma anche chi cerca libertà, magari negata per il colore della pelle, per l’orientamento sessuale, per essere trans, per le proprie idee politiche, per il contesto di classe in cui è nato. Spesso, per tutte queste ragioni insieme. Berlino costringe ad allargare lo sguardo, e a spostare i confini interiori. E poi c’è l’aspetto più visibile, quello che colpisce subito: la varietà radicale delle esistenze. Persone che camminano in pigiama, cassiere in abiti drag, corpi e identità che sfuggono a ogni incasellamento. E nessuno si volta, nessuno chiede spiegazioni. Un mondo così, vissuto ogni giorno, diventa un antidoto al giudizio. Quello che un po’ mi spaventa, invece, è proprio il contrario: quando qualcuno prova a dire che esiste un solo modo per tutto. Un solo modo di amare, di essere famiglia, di fare arte. Un solo modo di costruire rapporti, in cui la competizione deve prevalere sulla collaborazione, in cui il successo deve passare attraverso la sconfitta dell’altro. Questo pensiero è velenoso, perché soffoca ogni possibilità di orizzontalità, di scambio, di crescita collettiva e comunitaria».

«Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva. Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse», affermava Michela Murgia. Come può la musica riscrivere nuovi spazi anche per coloro che non si sentono rappresentati nel discorso pubblico?

«[si emoziona] Perché la musica ha un potere immenso. Perché le canzoni raccontano storie e noi abbiamo bisogno di storie in cui riconoscerci. Hai citato Michela Murgia, e io aggiungo un’altra frase, un mantra per me, di Danilo Dolci: “Ciascuno cresce solo se sognato”. Abbiamo bisogno che qualcuno ci sogni, che qualcuno immagini per noi possibilità che ancora non riusciamo a vedere, che ci mostri che quel qualcosa che sembrava lontano, inaccessibile, impensabile, può invece appartenerci».

Nonostante spesso permeata di mascolinità tossica, testi sessisti, misogini e omofobi, la musica di genere trap è oggigiorno molto diffusa. Come te lo spieghi? È direzione o specchio della nostra società?

«Oggi il focus è sulla musica trap, ma se guardiamo indietro, troviamo moltissime canzoni rock degli anni ’80 che paragonano le donne a macchine da corsa, oppure pezzi di cantautorato che, rivisti con gli occhi di oggi, possono risultare anacronistici. Questo non significa che dobbiamo smettere di ascoltare quella musica, ma che dobbiamo rileggerla con una certa consapevolezza. C’è una seconda considerazione, e riguarda i testi: nella maggior parte dei casi nascono da un’esperienza personale, da un vissuto. Perciò, di fronte a un testo che discrimina, più che domandarci a quale genere appartenga, dovremmo chiederci perché sia così intriso di sessismo, razzismo o omofobia. Quale realtà quotidiana attraversano queste persone per portarle a scrivere certe cose?»

La classifica finale di Sanremo 2025 ci ha restituito il quadro di un’Italia dove le donne non riescono ancora a rompere il soffitto di cristallo nemmeno nel mondo della musica per colpa della discriminazione di genere. Nella parte alta della classifica c’è il 75 percento di presenza maschile e il 25 percento femminile. Inoltre, nessuna donna ha mai avuto la direzione artistica del Festival in solitaria. Perché, dalla stampa, al web, ai social, tanti negano il gender gap?

«Il gender gap mi sembra trattato come il cambiamento climatico: nonostante i fatti siano chiari, molti continuano a negarlo. Michela Murgia diceva che la subordinazione delle donne è così utile alla società da rendere il cambiamento difficile. È complicato riconoscere un problema quando una parte della popolazione ne trae un privilegio diretto. Questo Sanremo, ha però mostrato qualcosa di interessante sul piano dell’intersezionalità: da un lato, un rinnovato gusto per il cantautorato; dall’altro, una mascolinità meno rigida. Mi ha colpito la complicità tra Lucio Corsi e Olly, per me una scena bellissima. Ciò che resta problematico è come non venga percepita la scarsa presenza femminile nella musica. Si citano sempre i grandi nomi, ignorando che la musica è un’industria, e come tutte le industrie, soffre di squilibri. Me ne accorgo nel quotidiano: nove volte su dieci mi interfaccio quasi esclusivamente con uomini».

Perché, inoltre, dalla nostra prospettiva un po’ più a nord, si ha l’impressione che di spazio per discutere soprattutto di inclusività, in Italia, non ce ne sia? 

«Alcune parole sembrano incutere timore, quasi fossero cariche di un potenziale eversivo, eppure ciò che spinge verso un’espansione dei diritti, una maggiore consapevolezza delle identità e della diversità non implica la cancellazione di ciò che esiste, ma piuttosto un ampliamento dello sguardo, un accrescimento della coscienza, propria e collettiva. Eppure, oggi, il dibattito pubblico sembra ridursi sempre più a una dinamica binaria, una partigianeria sterile che ricorda lo schema di una competizione sportiva. Non si discute, si tifa. Non esiste più il dissenso ragionato, ma solo l’adesione a un fronte rigido, impermeabile alle sfumature. In fondo, però, se ci pensiamo bene il confronto autentico nasce proprio nel dissenso, nella capacità di dire “Ehi, non sono d’accordo con te!” senza per questo negare all’altro la possibilità di esprimersi. Non serve riesumare Voltaire per ricordarlo, ma il principio resta lo stesso: non condivido ciò che dici, ma mi batterò affinché tu possa dirlo. La soluzione potrebbe essere tuttavia più vicina di quanto pensiamo. Si tratta di quella rivoluzione gentile che alcuni pensatori hanno già teorizzato [si pensi ad esempio a Una rivoluzione gentile (2022) di Dacia Maraini, ndr]: prendersi cura della comunità, riscoprire un senso di appartenenza condivisa e aprirsi davvero agli altri. Perché, come diceva Battiato, siamo ospiti di questo mondo e dovremmo muoverci con compassione».

Francamente fa parte del collettivo “Canta fino a dieci” assieme ad altre colleghe, tra cui Anna Castiglia, che ne ha parlato nel corso della sua intervista a Rete Uno (da 12:09)

17:45

Introspezione e audacia: questa la musica di Anna Castiglia

Tra le righe 08.04.2025, 15:30

  • Courtesy: Anna Castiglia
  • Natascia Bandecchi e Isabella Visetti

Ritorniamo alla tua musica. Come è nata la decisione di partecipare a X Factor? E cosa ti porterai a casa da quest’esperienza?

«Ho sempre avuto delle riserve, sono una fanatica del dubbio, quasi cartesiana. Eppure, mi ci sono avvicinata con entusiasmo, in un momento che definirei “borghese” [sorride] della mia vita: lavoravo a Berlino, mi ero laureata, suonavo molto per strada e nei club. Era un periodo di stabilità, di slancio, il momento giusto per dire: “Perché no? Proviamoci”. E poi c’è stata l’esperienza umana. Il primo giorno, quando ci dissero che avremmo vissuto tutti insieme, in trentadue, nello stesso spazio. Ho pensato: “No! Impossibile!”. Dopo anni a Berlino ero diventata quasi prussiana, abituata ai miei spazi, alla distanza. E invece è stato incredibile: si è creata una connessione forte, come una classe del liceo con cui hai vissuto qualcosa di intenso che in qualche modo ti legherà sempre».

Durante il programma hai interpretato brani iconici, ma soprattutto presentato i tuoi inediti Paracadute e Fucina. Parliamo di quest’ultimo brano, che ti ha valso tante lodi, sia dai giudici di X Factor, sia dal pubblico (che non ha lesinato ad associare i tuoi testi con Franco Battiato e la tua voce a Carmen Consoli).

«Fucina è nata nella mia cucina di Berlino, ed oltre ad essere una grande dichiarazione d’amore, interseca il rapporto con le lingue, la loro varietà e il modo in cui “ci abitano”, raccontando questo “luogo” che è ormai anche affettivo. Per me, poi, ogni struttura linguistica, ogni grammatica porta con sé domande diverse. Pensare in un’altra lingua, significa modificare la propria prospettiva sul mondo. Fucina è [anche] questo: un luogo in cui le parole si fondono e si trasformano, creando nuove domande, nuove possibilità, a cui non si poteva pensare».

Dentro la fucina di parole che sei
Ti ascolto mentre suoni domande che non sono le mie
E dentro la fucina di parole che sei
Ti ascolto mentre suoni domande che non sono le mie
Proprio dove ti sei fermata a bere
Fammi sedere su di te, che voglio pedalare

Sei il movimento che porta dalle campagne alle strade
Mi vedi mossa perché non so più ridere sola
Le tue ossa come un manubrio
Per raccogliermi quando perdo l’equilibrio, mhm-mhm

Francamente, Fucina

Ce ne commenti il testo?

«È l’istante in cui il silenzio si dissolve nei rumori del mondo, in cui l’isolamento lascia spazio alla presenza dell’altro. E poi c’è l’ultima immagine, la più intima. Amo profondamente la bicicletta, e credo che questa canzone lo suggerisca. L’idea che le ossa, il corpo della persona amata, diventino il manubrio, il punto che tiene in equilibrio. O forse è solo un modo più poetico per dire che l’amore è anche sostegno».

È vero che da grande vuoi fare la filosofa?

«[ride] In questi giorni sono in studio, ed è un privilegio enorme. Non avrei mai pensato che questo momento sarebbe arrivato, avevo in mente altro, altri piani, altre direzioni. Non vedo l’ora di portare queste canzoni fuori, ma sempre con un’idea chiara: restare con i piedi per terra. Perché fare musica significa anche fare i conti con il mondo. Non si può rimanere distanti, immacolati. Bisogna sporcarsi, addentrarsi nelle cose. Quindi sì, ci sarà tanta musica, ma spero di non perdere mai quella tensione filosofica che mi porto dietro, quella spinta a guardare un po’ più in là, o semplicemente dietro l’angolo».

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