Non si potranno mai più ripetere scene come quelle di Città del Messico 1968, con i pugni alzati di Tommie Smith e John Carlos. O i baschi neri in testa di Lee Evans e degli altri quattrocentometristi americani. E neppure la dignitosa e silenziosa ribellione di Vera Caslavska che chinò il volto per non guardare la bandiera sovietica. Ai Giochi Olimpici di Tokyo e a quelli successivi invernali di Pechino sarà infatti formalmente vietata ogni forma di protesta da parte degli atleti sul podio, ma anche sui campi da gara. E questo, incredibile ma vero, proprio in virtù delle raccomandazioni della stessa commissione degli atleti: consigli che il Comitato Olimpico Internazionale ha reso legge.
Più di due terzi di 3'547 sportivi intervistati hanno infatti giudicato "poco appropriato manifestare o esprimere il proprio punto di vista" in occasioni di premiazioni, cerimonie ufficiali o durante le gare, ha dichiarato lo stesso CIO, il cui comitato esecutivo si è riunito in questi giorni. Pertanto d'ora in poi gesti come quelli sopraccitati - o come quelli, ad esempio, a sostegno della campagna Black Lives Matter - saranno ufficialmente puniti, anche se ancora non è stato stabilito con quali modalità. Giusto lo scorso mese di marzo, però, il Comitato olimpico e paralimpico americano avevano garantito agli atleti che durante i Giochi nipponici avrebbero avuto la libertà di alzare il pugno o inginocchiarsi durante l'inno statunitense, come segno di sostegno alla lotta per la giustizia in ambito razziale.
Atletica, Tommie Smith e le Olimpiadi del 1968 (Sport Non Stop 16.10.2016)
RSI Sport 16.10.2016, 14:09