Filosofia politica

Hannah Arendt e l’attualità de “La banalità del male”

Sono passati 60 anni dal libro che, insieme agli altri scritti della filosofia e giornalista tedesca , rappresenta uno dei pilastri del pensiero del Ventesimo secolo

  • 3 ore fa
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Hannah Arendt

Di: Elia Bosco 

Sessant’anni fa, nel 1964, per i torchi della Feltrinelli, venne pubblicato in Italia La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme di Hannah Arendt. Il saggio fu scritto dopo la partecipazione della pensatrice politica, in qualità di giornalista, al processo contro il gerarca nazista Adolf Eichmann, uno dei principali responsabili della cosiddetta “soluzione finale”, svoltosi a Gerusalemme nel 1961, cui esito fu la pena di morte. L’opera entrò a pieno titolo nella storia del pensiero del Novecento per la sua portata rivoluzionaria, che portò ad una inedita concezione delle categorie tradizionali di bene e di male.

Il concetto di banalità del male si mette in rapporto dialettico, nel pensiero della Arendt, con il concetto kantiano di radicalità del male, utilizzato dalla scrittrice nell’opera del ‘51 intitolata Le origini del totalitarismo. Sulle pagine del New Yorker, Hannah Arendt scrisse che il processo a Eichmann ha rovesciato completamente il tema del male come esso era stato presentato nel testo del 1951. Se in quell’opera i totalitarismi erano stati letti come conseguenza diretta del fallimento della democrazia e del pensiero critico, e piene manifestazioni del male assoluto e radicale, alla luce della macchina di sterminio industriale che Auschwitz rappresentò quella categoria non era più sufficiente per descrivere il dramma dei campi di sterminio e serviva dunque una rielaborazione concettuale.

Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso sfida, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale.

Hannah Arendt, La banalità del male, 1964.

Eichmann, nota Hannah Arendt, si presentò al banco degli imputati con un tono dimesso, come un normalissimo impiegato. Ci si aspettava l’incarnazione del male, ma si presentò invece un burocrate, che si difese sostenendo l’obbedienza all’ordine ricevuto. Un uomo che, insomma, ha semplicemente svolto il suo compito. Emerge qui il tema della macchina, del potere politico, della burocrazia, che diventa egemone attraverso l’obbedienza cieca, silenziosa, zelante di migliaia di uomini. Eichmann non si mise di traverso a questo sistema, non oppose la sua coscienza, non si mise mai nei panni dell’altro da sé, ma si donò passivamente al servizio di un ingranaggio di morte.

L’assenza di pensiero non si identifica con la stupidità; si può incontrarla in persone di intelligenza elevata, e un cuore malvagio non ne costituisce la causa. È vero probabilmente il contrario: che la malvagità può essere causata da assenza di pensiero.

Hannah Arendt, La vita della mente, 1977.

Ecco che il male banale, secondo Hannah Arendt, diventa addirittura più pericoloso del male radicale. Se il male radicale è incarnato solitamente in un individuo che, trasportato dalla sete di potere, da ambizioni smisurate, dall’ira, dall’insoddisfazione, sceglie consapevolmente di compiere azioni malvage per seguire le sue necessità psicologiche, il male banale, al contrario, richiede semplicemente la cieca obbedienza. Esso può essere eseguito da chiunque decida di rinunciare al pensiero, al giudizio, allo spirito critico, alla morale. In questo modo, l’individuo si trasforma in un elemento manipolabile, assume il ruolo di una rotella che permette alla macchina di funzionare. Non ne è vittima, ma ne è complice. In politica serve dunque il coraggio, dice la Arendt, dire di no e di opporsi a una politica senza morale, di violenza e di morte. Il processo ad Eichmann ci dimostra che non può esserci una politica senza morale. Una democrazia autentica deve stimolare la disobbedienza e la responsabilità individuale.

Dunque, Hannah Arendt ci ricorda come la politica sia fatta di coscienza, di moralità e della necessità di anteporre la riflessione alle azioni. Occorre sempre mettere di fronte all’azione politica la responsabilità individuale e collettiva. La posizione di difesa di Eichmann tende a depotenziare la responsabilità individuale, scaricando tutte le colpe su un meccanismo di obbedienza al partito, allo stato, alla macchina, alla burocrazia. In realtà, la difesa di Eichmann ci ricorda che l’antidoto al male banale si trova dentro ciascun individuo, che non può piegarsi alla banalità del male, alla deresponsabilizzazione del suo agire. ll più grande antidoto alla banalità del male è quindi la responsabilità individuale, la coscienza critica attiva, e ciò rappresenta la più preziosa lezione che Hannah Arendt ha lasciato in eredità al genere umano.

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