Una sirena che vola, le maschere, il mistero, la musica che sembra acqua. Debutta il 18 luglio il nuovo spettacolo della Compagnia Finzi Pasca. Si intitola “Titizè- A Venetian Dream”, lo spettacolo è stato voluto dalla città di Venezia per rilanciare il Teatro Goldoni, il più antico teatro cittadino in occasione dei suoi 400 anni di attività.
Poche parole e tante immagini, “Titizé” rimarrà a Venezia fino al 13 ottobre e poi il 22 ottobre andrà in scena al LAC di Lugano prima di girare l’Europa. A pochi giorni dal debutto abbiamo visto l’anteprima e intervistato Daniele Finzi Pasca che ha scritto e diretto l’opera.
Cosa significa “Titizé”?
“Ti zé” , tu sei. È il verbo essere declinato in una parola che abbiamo un po’ inventato. Come sai i nostri spettacoli viaggiano un po’ dappertutto, è peccato avere dei titoli che vanno tradotti ed è importante trovare un titolo che si pronuncia uguale dappertutto. Mio fratello, è Marco, che ha avuto l’idea. “Ti zé” veneto, “ti zé” svizzero, l’abbiamo ridondato con una ti ed è diventato una sola parola “Titizé” quindi alla fine “chi sei?”, è la domanda. Ed è una domanda shakespeariana, una domanda esistenziale che noi però trattiamo con la nostra sfacciataggine da clown.
Qual è il suo sogno veneziano?
Il mio sogno veneziano è semplice, è pieno di stupore e storie. Un turista cerca i muri, le pareti, si porta a casa i paesaggi mentre i viaggiatori cercano storie. Sono molti mesi che ascoltiamo le storie dei veneziani, ci hanno fatto capire come qui sognano, le storie sono quello che raccogliamo e racconteremo viaggiando.
Come è mettere in scena Venezia?
C’è la notte, ci sono i passi nella notte, c’è la nebbia, ci sono questi silenzi e poi questo pieno di gente. Nella stessa strada dove a volte ti puoi sentire in angustia perché nella notte non c’è nessuno, delle volte, invece, ti senti che stai pigiato pigiato. La cosa che forse mi ha più affascinato è il gusto che c’è per il mascherarsi. Ma non il mascherarsi carnevalesco, bensì il velarsi in qualche modo che è un’azione particolare. Ti veli per svelarti, ti veli per mostrarti in un modo diverso perché se sei prima velato poi improvvisamente alzi il velo e crei una sorpresa, un impatto. Osservi improvvisamente le cose in modo diverso e su quello, proprio da quello, sono partito per le mie elucubrazioni.
E poi c’è tanta leggerezza...
La leggerezza è un termine così strano. Uno spettacolo leggero si può immaginare che sia fatto così, di nulla, invece la leggerezza parte dalla densità. I grandi maestri della clowneria lo dicono che i pubblici che sanno ridere sono quelli che sono stati massacrati dalla sofferenza, la leggerezza nasce da una concentrazione profonda, in alcuni casi anche dal dolore. Allora tutto d’un tratto, in quella condizione, un pensiero semplice, un profumo, una qualsiasi cosa ti permette di scappare via, di sentire che c’è luce, quindi il nostro teatro è della leggerezza, è l’ironia. Beh, siamo clown, quindi ci piace raccontare le storie a volte, così, intorno a un tavolo ci diciamo, questa è proprio un’idea cretina!
Che effetto le fa portare l’immagine di Venezia in giro per il mondo? Cosa ha provato quando ha ricevuto la chiamata da parte della città?
Mah, lo stesso stupore di quando mi hanno chiamato per raccontare il Messico al Cirque du Soleil, allo stesso modo quando mi hanno chiamato per dirigere le Olimpiadi russe, che bisognava tradurre lo spirito russo o quelle di Torino. Cercare di capire il piemontese e i piemontesi, recentemente anche in Arabia Saudita la prima opera lirica in lingua araba dedicata ad un mito. Mi sa che sono un bravo traduttore di storie d’altri. E poi in Svizzera anche i vigneron si sono azzardati bene! Dei vodesi che fanno raccontare la Fête des vignerons da un gruppo di ticinesi, anche lì è stata non poca cosa! Forse siamo affascinati dai luoghi dove arriviamo, dalla gente che incontriamo e abbiamo così sviluppato questa abitudine a sviluppare storie d’altri con molto piacere.
Che effetto le fa essere nel più antico dei teatri moderni, il Teatro Goldoni, di recente restaurato per i suoi 400 anni di attività?
Questa è una cosa che non si può spiegare così facilmente, bisogna starci la notte. Ci sono delle tradizioni dove nei teatri non si spegne la luce la notte perché è meglio lasciare una luce per tutti quelli che abitano in un teatro, perché tutti questi fantasmi che li popolano parlano, ti inquietano. A me piace stare in questo teatro la notte perché qui senti, qua sono state pensate cose, su quelle tavole di quel palcoscenico c’è il sudore di tanti nostri colleghi, di tanta gente che ci ha preceduto, che continuiamo a studiare per capire come fare una volta uno spettacolo giusto. Quindi c’è molta emozione, la stessa che abbiamo vissuto in quei teatri, e non sono tanti, che sono propri topici, sei in un posto in cui chiedi permesso prima di entrare e noi lo facciamo. Chiediamo sempre permesso a chi qui è di casa di poter azzardare un salto, di fare una piroetta in casa loro.