di Cristina Savi
La sera del voto la costernazione del governo e degli ambienti politici ed economici che avevano combattuto per l’adesione allo spazio economico europeo era sotto gli occhi di tutti. Nella consueta conferenza stampa di commento dei risultati, il ministro dell’economia Jean-Pascal Delamuraz non fece nulla per nascondere la propria delusione: il “no” popolare al progetto per il futuro del Paese, che il governo aveva elaborato insieme agli altri paesi dell’AELS e alla Comunità europea, rappresentava una disgrazia per l’economia, per l’occupazione, per i fautori dell’apertura e per i giovani.
In più il popolo si era spaccato praticamente a metà. E sulla cartina della Svizzera si poteva intravvedere un solco profondo, lungo il confine linguistico fra francofoni e germanofoni. Ma divise erano anche città e campagna, le generazioni, le classi sociali.
In realtà nei due decenni che ci separano da quella serata di intense emozioni patriottiche, il destino si è rivelato meno tragico del previsto. Berna è riuscita a riannodare il dialogo con Bruxelles e ha strappato ciò che durante la campagna del ’92 pareva del tutto precluso: due serie di accordi bilaterali che hanno permesso agli svizzeri di godere dei benefici del grande mercato unico europeo, senza compromettere sovranità, neutralità, federalismo e diritti popolari.
Il sondaggio
Oggi – secondo il sondaggio realizzato per la SSR SRG dall’istituto gfs di Berna fra il 16 e il 23 novembre su un campione di 1'206 cittadini – più svizzeri di quanti, all’epoca, abbiano respinto lo spazio economico sono contenti di non aver aderito, mentre due terzi dei cittadini sono ancora convinti che l’opzione bilaterale si sia rivelata vincente e vorrebbero proseguire su questa strada. Anche i romandi sono diventati meno europeisti e i giorni in cui i giovani lanciavano iniziative per l’adesione e improvvisavano dogane immaginarie con la Svizzera tedesca sono lontani.
Lo spazio economico è dunque morto e sepolto? Le ferite che ha portato alla luce si sono rimarginate? La risposta non è tanto semplice perché, mentre in Svizzera si celebra l’anniversario, da Bruxelles giungono segnali inequivocabili: la pazienza dell’Europa, oggi più grande e complessa, è esaurita. Per il nostro partner l’approccio bilaterale è finito e le questioni istituzionali, rinviate con la mancata adesione allo spazio economico, vanno affrontate una volta per tutte.
Come? Su questo - e il rinvio è ancora al nostro sondaggio - gli svizzeri sono divisi oggi come vent’anni fa. E poche volte la celebrazione di un anniversario è stata più opportuna per rilanciare un confronto sospeso, ma mai veramente risolto. Come dire che a vent’anni di distanza non sappiamo ancora con certezza se, nel dichiarare il 6 dicembre del 1992 una domenica nera, Jean-Pascal Delamuraz avesse torto o ragione.
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Quali potranno essere le conseguenze politiche delle divergenze d’opinione sul futuro della politica europea messe in luce dal sondaggio SSR? Alan Crameri ne ha discusso con due parlamentari federali schierati su fronti opposti.
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20 anni di politica europea in 21 fotografie:
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