*Dal collaboratore RSI a Londra
Wimbledon è l’inavvicinabile. Non solo per la sua storia ultra-centenaria. Il torneo di più antichi natali. Non solo per il prestigio internazionale che ha travalicato gli angusti perimetri sportivi. Un evento anche di costume, fedele custode di liturgie sociali in via di estinzione. Non solo per l’inafferrabile fascino. Meno stucchevole delle corse di Ascot, più esclusivo di una partita dei Barbarians. Wimbledon è inavvicinabile perché è una roccaforte di patrizia eleganza e raffinato distacco. Immutata a se stessa. Capace di attirare ogni giorno oltre 40mila appassionati, pur senza diventare popolare. Un pubblico di devoti che “almeno una volta nella vita” sogna di varcare i Doherty Gates.
Wimbledon è vanto e privilegio. La sospensione del tempo. Al di fuori possono succedere attentati, crisi finanziarie, Brexit, che quasi non ne arriva l’eco. Brusii di sottofondo respinti ai cancelli d’ingresso, come un qualsiasi spettatore senza biglietto. Eppure anche l’attrazione fatale per i Championships ondeggia nel corso delle due settimane. I primi sei giorni sono una pantagruelica abbuffata per bulimici della racchetta. Non c’è campo, anche il più remoto, che non offra un’istantanea di meraviglia. Il secondo lunedì è un torneo nel torneo. Supplizio per il giornalista medio, costretto agli straordinari.
Da martedì, cioè ieri, inizia una sorta di slalom, comprovato dalle quotazioni al mercato nero dei bagarini. Rari eppure presenti, bisbigliano all’uscita della stazione di Southfields. Mentre sono costretti a svendere i biglietti per il Centrale, dove si giocano i quarti femminili. Infine raggiunta coi montepremi, la parità dei sessi resta incompiuta nell’interesse generato. Wimbledon allora supplisce con impeccabile cerimoniosità, in ossequio ad un galateo d’altri tempi, nobile antesignano del politically correct. E la disparità svanisce nel bon ton alla fragola
*Lorenzo Amuso