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La "Pandemia" era già scritta

Incontro con il premio Pulitzer Lawrence Wright, autore di un romanzo che oggi suona profetico

  • 15 maggio 2020, 22:05
  • 22 novembre, 19:21
03:40

"Pandemia" di Lawrence Wright

Telegiornale 15.05.2020, 22:00

Di: Massimiliano Herber 

Quando un paio di anni or sono, i suoi colleghi venivano a sapere che lui, Lawrence Wright, l’autore dell’inchiesta da Premio Pulitzer sugli attacchi alle Torri Gemelle (The Looming Tower) o sul lato oscuro di Scientology (Going Clear), stava scrivendo un romanzo su una misteriosa epidemia partita dall’Asia strabuzzavano gli occhi. Una pandemia? Un romanzo su un virus? Temi da film di fantascienza, da libro distopico, non materiale per l’acuto e tenace giornalista del New Yorker. E invece ne è venuto fuori End of October, uscito a fine aprile negli Stati Uniti e prontamente tradotto in Pandemia in italiano. Mentre non senza timori il mondo si appresta a riaprire, a far ripartire l’economia, il titolo originale ricorda la seconda ondata della Spagnola negli USA che nel mese di ottobre 1918 provocò il più grande numero di vittime: 195’000. Oggi in America i morti da Covid-19 sono 87’000.

Il romanzo è un thriller, ma il quadro che ne esce è profetico: “Nessuna profezia, anticipa Wright raggiunto a Austin dal Telegiornale RSI, solo ricerca. Bastava parlare con gli esperti e capire che non eravamo pronti per una pandemia. Non era un mistero per nessuno che la sanità pubblica americana fosse impreparata”. Per scriverlo lo scrittore 71enne si è consultato con gli scienziati nell’NIH alle porte di Washington (il più grande centro di ricerca pubblico al mondo) e con ricercatori dell’industria privata. “Solo al C.D.C. di Atlanta (il Centro federale che si occupa di malattie e di prevenzione, falcidiato dai tagli negli ultimi anni) non mi hanno fatto entrare…”. Il quadro che emerge dal suo romanzo è prevedibile e disarmante. “Abbiamo i migliori scienziati del mondo, ma poi, sorride malinconico, la risposta più efficace all’inizio è stato una soluzione che risale al Medio Evo: la quarantena…”.

La diffusione di un virus, la risposta inadeguata della politica, il collasso economico, ma Wright non aveva previsto tutto – “Avevo sottostimato la solidarietà tra le persone, il loro isolamento a costo di un sacrificio umano, finanziario e spirituale enorme” – e non fa previsioni. “Siamo a un bivio”, ammette e non nasconde la preoccupazione: “Guarda il numero dei disoccupati, non ce n’erano tanti dalla Grande Disoccupazione. Ma allora gli Stati Uniti colsero l’occasione per rimodellare se stessa, per ripensarsi e uscire da quella terribile recessione, rete sociale e stato, e l’America è divenuta più forte e più coesa e questo potrebbe riaccadere, anche se la storia recente non è incoraggiante…”. Così dopo averci portato pagina dopo pagina tra i focolai del contagio romanzato, Wright tocca il cuore del virus che contagia la democrazia americana: “potremo cogliere l’occasione per rimediare alle storture della nostra società e diventare più forti, uniti, o - al contrario – potremo cedere e lasciar crescere un sentimento populista e contrario alla scienza”.

Finita l’intervista tivù si parla del dopo, Wright ricorda come è cambiata la vita dopo l’11 settembre “in nome della nostra sicurezza” e ricorda quando da ragazzo andava all’aeroporto di Dallas (“il “Love Field” che nome romantico…”) a vedere tranquillamente gli aerei, muovendosi con grande libertà tra la pista e le torri. “Era l’America prima dell’11 settembre. E non c’è più. Anche il sogno di quella libertà non c’è più. Speriamo che dopo il coronavirus non dovremo dire lo stesso”.

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