L’intervista

Le donne nel mondo del narcotraffico latinoamericano

Parla Deborah Bonello, autrice di “Narcas”, dove vengono raccontate le carriere di prolifiche criminali; un’analisi oltre gli stereotipi

  • 13 giugno, 15:21
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Deborah Bonello

  • RSI/Laura Daverio
Di: Laura Daverio 

Specializzata in crimine organizzato, da vent’anni Deborah Bonello scrive dal Messico per prestigiosi media e think tank. E per vent’anni ha incontrato le stesse costanti. La prima è che quasi sempre era l’unica giornalista donna a investigare storie di crimine. La seconda è che le figure di donne nel mondo del crimine erano per lo più limitate a fidanzate o moglie, vittime del ruolo in cui si erano trovate a causa di un uomo. Guardando al crimine con una lente diversa, “Narcas” racconta storie di donne protagoniste di silenziose, ma prolifiche carriere criminali.

Ciò che vediamo dipende molto da quello che ci aspettiamo di vedere. E queste narrative sulle donne sono state create da uomini. Credo che il libro possa ampliare la nostra visione delle donne nel mondo del crimine organizzato, perché la nostra attenzione è sulle grandi figure di boss uomini malvagi, e tutto il resto rimane dietro le quinte. La visione che abbiamo delle donne e di cosa siano capaci è basata su stereotipi di genere, pensiamo che le donne non sono così ambiziose, che non vogliano tanto potere, che non siano capaci di violenza. È qualcosa che diciamo a noi stessi per sentirci meglio. Come società, c’è qualcosa di profondamente minaccioso nel pensare che la parte di popolazione che abbiniamo ad avere figli e crescerli, sia anche capace di inganno, violenza brutale e arricchimento attraverso il crimine.

Sono gli stereotipi si ripetono sia per chi vive nel mondo del crimine che su chi ne scrive, come Deborah stessa.

Trovo che le donne che sono madri a essere denigrate, più degli uomini padri. Si vedono spesso titoli di “narco-mamme”, ma non si è mai visto riferirsi a El Chapo come “narco-papà”. La sua paternità o le sue qualità di padre non sono messe in discussione a causa del suo impero criminale. Se guardiamo al giornalismo, ci sono lavori ad alto rischio, come investigare su una guerra o sul crimine organizzato. Se sei un uomo la gente pensa che tu sia coraggioso. È una scelta rispettata, che ispira. Ma quando la gente mi chiede cosa faccio, mi dicono - Non ti preoccupi per i tuoi figli? Non hai paura per la tua sicurezza? Anche gli uomini hanno figli, ma nessuno fa le stesse domande.

E poi c’è Hollywood, con la sua influenza sulla percezione del mondo del crimine. Pensiamo al successo della serie “Narcos” che narra l’ascesa e disfatta di Pablo Escobar o “Narcos Mexico” che racconta di come il paese sia diventato culla dei più grandi cartelli della droga al mondo. Infine c’è la più recente “Griselda”, mini serie di gran successo sulla boss colombiana che controllò il commercio di droga a Miami tra anni ’80 e ’90.

Molte narrative di Hollywood si basano sul lavoro di giornalisti e storici, riflettono quanto gli viene raccontato. Il resto sono le fantasie elaborate per mantenere l’interesse del pubblico. Ma a dir la verità ho trovato che “Griselda” proponga una versione rinfrescante. Anche se l’hanno ammorbidita molto come personaggio. Era un’assassina spietata fin da quando era bambina. È cresciuta in una povertà estrema, è nata in un mondo in cui pochissime persone avrebbero potuto farcela nel mondo della legalità. Penso che ciò che mancava in Griselda è quali fossero le motivazioni. Nelle narrative di Hollywood trovo un po’ stancante l’idea che le persone nascano cattive o siano psicotiche e determinate a fare del male. Penso che siamo assolutamente il prodotto delle nostre esperienze e dei nostri traumi, delle persone e delle cose cui siamo esposti crescendo.

E se Hollywood fa difficoltà a proporre una nuova narrativa, lo stesso succede nel mondo reale, dove la lunga guerra alla droga è stata un fallimento.

Non posso fare a meno di pensare che se capissimo un po’ di più la genesi psicologica ed emotiva di molti trafficanti, i fattori sociali ed economici che contribuiscono a farli entrare nel traffico di droga, potremmo essere in grado di elaborare migliori idee su come affrontare il problema. Manca poi qualsiasi focus di genere. Nel mio libro la maggior parte delle donne sono madri singole. Non esistono politiche che tengano conto delle diverse esperienze delle donne. Quando un uomo viene messo in prigione, le conseguenze sono diverse rispetto alle donne perché sono loro a occuparsi dei bambini, che possono andare in prigioni con le madri o rimanere senza alcuna supervisione. Spero che il libro possa aiutare a promuovere nuove idee al riguardo, per creare politiche che siano un po’ più preventive e meno determinate a mettere i criminali semplicemente dietro le sbarre.

“Narcas: the secret rise of women in Latin America’s Cartels” è pubblicato da Beacon Press, al momento disponibile in lingua inglese.

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