Ridateci quella mummia egizia. A Brissago c’è chi rivuole indietro il sarcofago contenente i resti della principessa Ta Sherit En Jmen, morta circa 2700 anni fa a Tebe. La mozione presentata dal consigliere comunale socialista Flavio Gallotti chiede, appunto, la restituzione della mummia . Un collezionista (il dottor Zaccaria Zanoli) l’aveva acquistata nel 1887 al Cairo. Dopo la sua morte era stata ceduta al suo Comune di residenza, Brissago. Il Comune era stato costretto, 4 anni fa, a cederla alla Scuola universitaria professionale di Neuchâtel: conservata male, andava restaurata con urgenza e il Legislativo di Brissago non aveva voluto addossarsi i costi per farlo (123’000 franchi).
Una vicenda curiosa – starà ora al Consiglio comunale e al Municipio del Comune del Locarnese decidere cosa fare - che però è tutt’altro che rara. Perché, se nel caso della principessa Ta Sherit En Jmen, l’intento non è di riportarla in Egitto, bensì a Brissago, la questione dell’appartenenza di opere e reperti antichi sottratti in passato ai Paesi d’origine è sempre più d’attualità.
I segreti della mummia di Brissago
RSI Info 17.03.2021, 13:45
I musei in Occidente sono pieni di opere antiche, reperti archeologici – compresi corpi o parti di corpi umani - provenienti da ogni dove, ma la cui origine solleva importanti criticità: spesso sono stati rubati, confiscati, saccheggiati, trafficati…
Sulla scia di una presa di coscienza - chiamiamola così - iniziata negli anni ’80, gran parte della comunità museale d’Occidente tenta di espiare i peccati coloniali anche annunciando restituzioni di opere alle ex-colonie depredate... Pensiamo solo all’ormai noto caso dei “Bronzi del Benin”. Ma anche queste restituzioni non sono prive di criticità: chi sono i proprietari legittimi di quelle opere? In un determinato territorio, gli Stati nazionali odierni non corrispondono necessariamente ai popoli cui appartenevano questi reperti. E ancora: i luoghi d’origine sono in grado di conservare questi reperti in modo idoneo? E che dire di oggetti che sono stati ceduti o venduti dalle stesse popolazioni d’origine a collezionisti o esploratori occidentali, come nel caso della mummia di Brissago?
Per discutere di queste e di altre questioni, MODEM ha intervistato Andrea Rascher (giurista specializzato in diritto d’arte), Francesco Paolo Campione (direttore del Museo delle Culture di Lugano, Matteo Fraschini Koffi (collaboratore RSI da Lomé, Togo) e Flavio Gallotti, autore della mozione che chiede al Comune di Brissago di riprendersi la mummia della principessa di Tebe.
Keahese: la mummia di Brissago
RSI Info 03.02.1998, 01:00
L’Egitto-mania, le mummie delle donne “spogliate” e gli acquisti immorali
Il tutto va inquadrato in un ambito più ampio, spiega Andrea Rascher (giurista specializzato in diritto d’arte). “L’Egitto-mania esiste in Europa già dal 1500. Inizialmente le mummie venivano usate per fare medicine (soprattutto i piedi venivano raschiati e la polvere utilizzata come medicina). Poi nel 1800 esplode proprio l’Egitto-mania. Ogni famiglia ricca aveva la sua mummia: si facevano anche party dove si spogliavano le mummie e si vendevano i pezzettini della tela. Se guardate le mummie che oggi abbiamo nei nostri musei, spesso sono nude. È una profanazione disgustosa... è interessante osservare che sono tutte mummie di donne... direi quasi una necrofilia pornografica. A Brissago si tratta del classico imprenditore o commerciante che l’aveva comperata in un Paese sotto occupazione, bisogna saperlo, per cui non fu uno scambio equo. In Egitto c’era una differenza di potere, per cui anche questi acquisti, dal punto di vista morale, non erano giusti. Per di più l’Egitto, dal 1830, aveva una legge che proibiva l’esportazione di beni culturali: dal punto di vista del diritto egiziano l’esportazione era illecita e anche il diritto internazionale dice che bisogna rispettare il patrimonio culturale dei diversi Stati”.
I segreti della mummia di Brissago
RSI Info 17.03.2021, 13:45
Questa mummia per oltre 100 anni è stata a Brissago, la popolazione si è affezionata però non necessariamente l’acquisto era lecito. A suo avviso dove dovrebbe stare? A Zurigo (dove può essere conservata da esperti) a Brissago o deve tornare in Egitto?
“Se a Brissago vi è un posto in cui la mummia può essere ben conservata, indubbiamente deve rimanere a Brissago, anche per il fatto che c’è una parte della popolazione che si è “affezionata” a quest’opera - dice Francesco Paolo Campione (direttore del Museo delle Culture di Lugano) -. Le opere sono risemantizzate nel corso del tempo e dunque sono una sommatoria di valori. Non possiamo ricondurre un’opera esclusivamente al valore in cui è stata prodotta. Quello è uno dei tanti valori che l’opera possiede. Un’opera d’arte o un oggetto raccontano una storia e quindi io credo che debba tornare a Brissago. Anzi mi sembra una cosa molto positiva che vi sia una comunità sul lago di Locarno, che si sia presa la briga di sentire come propria una mummia egiziana”.
Ci sono pezzi che sono stati rubati, saccheggiati o confiscati ma anche pezzi che sono stati ceduti volontariamente. Bisogna fare delle distinzioni per ogni singolo caso?
“Va sempre valutato il singolo caso, però, come premessa, anche il diritto svizzero dice chiaramente: tutto quello di valore storico-scientifico che è nel terreno appartiene al Cantone - sottolinea Andrea Rascher (giurista specializzato in diritto d’arte). E allora perché diciamo: ogni piccola moneta, ogni pezzo di legno antico appartiene al Cantone ma quando si tratta dell’estero iniziamo a fare discorsi socio-politico-culturali più ampi, per poterci accaparrare questi beni? Per me è molto paternalistico. Ci sono beni che furono fatti per il mercato, come la Monnalisa (era stata donata legalmente al re di Francia), a partire soprattutto dal Rinascimento, quando il bene culturale diventa anche un bene da vendere. Ora c’è la storia dell’oggetto nella nostra cultura e quella va valorizzata, va contestualizzata, però sempre anche in contatto con le comunità. Anche San Gallo ha una mummia; adesso ha preso contatto con le autorità egiziane per elaborarne la storia, e le autorità egiziane, per il momento, non hanno nessun interesse alla mummia. A quel punto comincia un dialogo. Potrebbe accadere che dicano: ben venga a Brissago questa “ambasciatrice Culturale”, però sempre nell’ambito di uno scambio equo e non paternalistico”.
Con la mummia a Brissago ci sarebbero dei visitatori, quindi anche entrate per il Comune?
“Questo è un po’ ridicolo. Lei crede che, esponendo una mummia egiziana a Brissago, si riprendano le risorse economiche necessarie a conservarla, a tenerla a disposizione dei visitatori? Assolutamente no, Anzi. Guardi che il museo non fa affari. Il museo conserva una memoria. Questo è il suo compito, conservare una memoria - spiega Francesco Paolo Campione (direttore del Museo delle Culture di Lugano). In questo caso la memoria che si conserva, quella dominante, intendo dire, è quella dei brissaghesi, di chi la portò lì nel 1887, di chi la sfasciò per cercare gli amuleti, di chi grattugiò i piedi (infatti anche questa mummia è senza piedi), nell’ambito di quella Egitto-mania che è stata evocata. L’oggetto di cui stiamo parlando, quell’opera d’arte, ha senso all’interno della storia culturale dell’Occidente. Per quanto riguarda la storia culturale di chi l’ha prodotta quella è un’opera che ha pochissimo valore. Esponendola a Brissago non si farebbero sicuramente affari, sarebbe un costo per il museo. Bisogna soltanto valutare, in questo caso, quanto il sentimento della gente, il sentimento popolare di appartenenza di questo oggetto sia importante. E d’altra parte non si può neanche chiedere poi al piccolo museo di Brissago, a Palazzo Branca-Baccalà (che è ancora chiuso), di interagire con gli studiosi di cose egiziane. Non c’è questa possibilità, non ci sono centri di studi, non ci sono centri di ricerca, non c’è personale scientifico. Forse una cosa del genere non la potrebbe fare neanche il Museo delle culture, che ha venti dipendenti. No, in questo caso si tratta davvero di un memorabilia locale, di un certo interesse per una storia specifica, che una piccola comunità desidera mantenere presso di sé. Io credo che sia tutto sommato una cosa accettabile ma è da mantenere nella piccola dimensione di un fatto, senza farne un qualcosa di più grande di quello che è”.
Se gli occidentali non avessero portato via dall’Africa, dall’Oceania, dall’America, la più parte di quello che è conservato oggi nei nostri musei, non esisterebbe più nulla
Francesco Paolo Campione, direttore del Museo delle Culture di Lugano
Perché ci sono anche grandi musei che non intendono, non vogliono o comunque fanno resistenza quando si parla di restituzione?
“Io da vent’anni faccio parte del board dei direttori dei musei etnologici europei. È un problema che ci siamo posti tante volte. Non c’è nessun museo in Europa che, di fronte a una ragionevole richiesta di restituzione, dica no. In quei casi in cui un’opera d’arte è stata rubata, trafugata, presa con violenza, chiunque di noi si mette di buzzo buono per cercare di individuare le soluzioni migliori. In tutti gli altri casi, che sono il 99,9%, non c’è tutto questo. Se gli occidentali non avessero portato via dall’Africa, dall’Oceania, dall’America, la più parte di quello che è conservato oggi nei nostri musei, non esisterebbe più nulla”, sostiene Campione.
Regni, Stati, popolazioni indigene del passato non esistono più, oppure sono stati inglobati in Paesi diversi. Quando si vuole restituire un reperto, un’opera antica o un manufatto, è difficile anche capire chi fossero i proprietari originari, i proprietari legittimi… Non solo. “Da una parte si chiede la restituzione ma dall’altra c’è gente che dice: quei beni sono stati restituiti alle persone sbagliate. In questo caso rientriamo nel paternalismo”, dice Andrea Rascher.
Ci sono, ad esempio, comunità afro-americane che si oppongono alle restituzioni, da parte di musei USA, verso la Nigeria. Dicono: l’antenato dell’attuale re aveva partecipato al commercio degli schiavi, quindi non è giusto riconoscergli questa restituzione.
Dal canto suo Francesco Paolo Campione vuole rassicurare sul fatto che centinaia e centinaia di istituzioni culturali in tutto il mondo discutono di questi problemi. Tre le possibili soluzioni. “La prima soluzione è restituire: avviene quando c’è un legale titolare del diritto dell’opera, che si può rivolgere a un tribunale internazionale. Poi c’è la seconda soluzione: molti musei come il nostro, avviamo dialoghi con le autorità locali, cercando di utilizzare le opere d’arte (conservate nei nostri musei) come piattaforma, come strumento, per avviare progetti di cooperazione internazionale. Il Museo delle culture, per esempio, in 20 anni lo ha fatto con Birmania, Senegal, Indonesia, il Borneo. Lo sta facendo con il Laos. Abbiamo progetti di ricerca comune, andiamo nei loro musei. Un’occasione straordinaria per attivare processi di cooperazione internazionale. E poi c’è la terza opzione: criticizzare la questione, parlarne, fare in modo che sia un tema discusso. Io su questo non esagererei: sono opere che, nella maggior parte dei casi, sono conservate da centinaia di anni, ben conservate, nei musei occidentali. Nel rispetto delle comunità locali, all’interno di progetti di cooperazione internazionale. Andarsi a battere il capo, a fare mea culpa in continuazione, non è una cosa corretta. Non si può fare il processo alla storia, non nelle sale dei musei. I processi alla storia facciamoli fare agli studiosi di politica internazionale e ai giudici”.