Il conflitto in Ucraina è entrato di prepotenza nel nostro vivere quotidiano e in quello dei più piccoli, anche a centinaia di chilometri di distanza. Come parlare, dunque, di guerra ai bambini? È giusto rispondere alle loro domande? Come farlo al meglio? La RSI ne ha discusso con la pedagogista Magda Ramadan, specialista di mediazione comunitaria e formatrice presso il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI.
“I ragazzi, i bambini, in questi giorni sicuramente sono entrati in contatto con notizie, con informazioni, anche se forse dal nostro osservatorio, quello degli adulti, tentiamo o abbiamo tentato di tenerli lontani da informazioni che riguardano il conflitto”.
La radio accesa in cucina, i titoli del telegiornale prima dei cartoni animati, e poi le discussioni sul pianerottolo di casa... insomma le notizie arrivano anche alle orecchie dei più piccoli... Dovremmo evitare di parlarne o cercare di trovare le parole giuste, per non trasmettere preoccupazioni e paura?
“Rispetto a una notizia che veicola insicurezza la reazione normale è la paura. Allora come possiamo fare ad accompagnare e a gestire, a permettere a bambini e adolescenti di gestire questo stato d'animo? Faccio un piccolo discrimine rispetto all'età. Nei bambini piccoli, oltre alla paura, c'è una percezione del mondo molto globale. Fanno fatica a distinguere quello che è reale da quello che è immaginario. Quindi gli adulti devono anche tenere conto del fatto che bisogna cercare di situare quanto avviene, ancorandolo il più possibile a qualcosa di reale. Per i bambini più grandi, a partire dai 9-10 anni, e poi per i ragazzi, è già più facile riuscire a farsi un'idea un po' più nel concreto di quello che sentono”.
Importante ad esempio, geolocalizzare gli eventi, portare anche messaggi di speranza o esempi di chi agisce per il bene. Le informazioni - ricorda la professoressa - vengono elaborate (anche nei bambini) su due livelli, quello cognitivo e quello emotivo.
“Il ruolo dell'adulto è fondamentale, perché è proprio l'adulto che deve rimettere in una cornice, in un contesto di realtà, quelle che sono informazioni. Deve in fondo rassicurare, cercando di essere concreto, ma poco enfatico. Questo anche per la qualità della comunicazione. La comunicazione è verbale e "non verbale". Quando diciamo cose in un certo modo, ma il nostro "non verbale" trasmette insicurezza, preoccupazione e paura, ricordiamoci: è questo il messaggio che passa, perché il "non verbale" è sempre più forte, a livello comunicativo, del verbale. Questa è un'ulteriore complicazione”.
Magda Ramadan, lei è responsabile della formazione di base presso il DFA, veniamo allora al ruolo della scuola nel contestualizzare quello che sta accadendo...
“È necessario essere in ascolto, in questo momento, perché i bambini e i ragazzi hanno modi diversi di elaborare. C'è chi ha un grande bisogno di tematizzare, di chiedere, di domandare, di parlare. Altri invece, più ripiegati, per questioni di timidezza, di carattere, fanno fatica forse a verbalizzare determinate paure, ma penso che la scuola debba comunque aprirsi e offrire momenti di ascolto attivo. E questo ascolto attivo passa attraverso una narrazione dei fatti, chiaramente il più possibile filtrati dagli aspetti emotivi ma anche da quelli più cruenti. Però è importante che non si faccia “finta di nulla”, perché sono notizie di una portata così importante che non è possibile farne astrazione”.