Patti chiari

La trappola del clic

Patti chiari - Puntata dell’11.4.25 - Il business della pubblicità digitale tra disinformazione, odio e persino truffe

  • Oggi, 12:30
640670525_highres.jpg

Immagine d'archivio

  • Keystone
Di: Prod. Polar Star Films - Yuzu Productions - Corporación Radiotelevisión Española - Arte 

Alzi la mano chi non accetta cookies o condizioni generali quando naviga su un sito, usa applicazioni e social media. Un semplice gesto effettuato senza riflettere che permette a una manciata di grandi aziende tecnologiche di usare i nostri dati personali per bombardarci di pubblicità su misura. Già perché le cosiddette big tech sanno molto di noi. Cosa acquistiamo, come paghiamo, dove viaggiamo. E sanno come usare queste informazioni.

Ma come funziona? A dettar legge sono potenti algoritmi che gestiscono migliaia e migliaia d’aste di dati personali che si svolgono in tempo reale in tutto il mondo. Una guerra senza esclusione di colpi fra ditte e marchi. Per accaparrarsi il consumatore più appetibile. Chi offre di più, riesce a piazzare la sua pubblicità. Tutto è partito da Google, il motore di ricerca che ha fatto esplodere la pubblicità digitale, grazie alla sua piattaforma Google Ads. Il sistema però è molto opaco e confuso, anche per chi lavora nel marketing.

Un’inchiesta svolta negli Stati uniti dall’organizzazione Check My Ads ha evidenziato che gli inserzionisti che pagano spazi pubblicitari spesso non sanno dove finiscono i loro annunci. Già perché possono finire su siti di disinformazione anche molto controversi che a loro volta ricevono da Google una parte dei proventi pubblicitari. Insomma si arricchiscono grazie alla pubblicità. Creare disinformazione diventa quindi un lavoro profumatamente remunerato. E più a lungo siti, social e applicazioni riescono a tenerci incollati allo schermo, più i guadagni aumentano. Si chiama economia dell’attenzione, un nuovo terreno di conquista dai proventi stratosferici. 

Ma non è tutto. I testi degli annunci non sono minuziosamente controllati come le big tech sostengono di fare. Durante la campagna elettorale in Kenya di alcuni anni fa, l’ONG Global Witness aveva pubblicato delle inserzioni che incitavano all’odio. Testi orribili che evocavano uccisioni e massacri. Sicura in una loro bocciatura, l’ONG è rimasta interdetta quando ha visto che Facebook li aveva invece pubblicati. E questo nonostante sventoli ai quattro venti che sono severamente vietati messaggi blasfemi, nudità eccessive e false informazioni. Incredibile! Anche perché dopo aver ammesso l’errore, Facebook ha pubblicato altri annunci dello stesso tenore.

Ma i nostri dati personali collezionati in rete non sono solo utilizzati per sommergerci di pubblicità tradizionale, odio o disinformazione. Dietro ad annunci pubblicitari si possono nascondere anche dei truffatori. Come quelli che promettono facili guadagni usando false testimonianze di personaggi famosi, salvo poi sparire nel nulla, una volta incassati i soldi delle vittime cadute in trappola. C’è chi ha perso, anche in Svizzera, centinaia di migliaia di franchi. Gli algoritmi, infatti, fanno in modo che gli annunci finiscano sui profili più indicati: quelle delle persone più vulnerabili.

E allora come prevenire i pericoli della pubblicità digitale? Dal 2024 è in vigore in Europa il Digital Services Act. Obiettivo: rendere più sicuro l’universo digitale. E’ sufficiente? Un primo passo, certo, ma per molti esperti fin quando i grandi attori del digitale non saranno disposti a diventare più trasparenti, il sistema rimarrà sempre opaco, alimentando un business da 500 miliardi di dollari all’anno.  

1:07:09

Lugano rallenta / La trappola del clic

Patti chiari 11.04.2025, 20:40

  • TiPress

Correlati

Ti potrebbe interessare