Edmondo Berselli nel grande album dell'Universo
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Edmondo Berselli nel grande album dell'Universo

di Valerio Rosa

  • ©Enrico Samorì
  • 18.12.2022
  • 4 min
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Prendiamo un intellettuale, anarchico, inclassificabile, anti-accademico, curioso degli esseri umani e delle loro vite, che sbadiglia pesantemente al solo pensiero di convegni, seminari e tavole rotonde. Uno che non si vergogna di mescolare letture elitarie e raffinate con i divertimenti quotidiani della gente comune. Uno che cita con disinvoltura Gadda, Walter Benjamin e i filosofi greci, ma conosce a memoria le canzoni di Lucio Battisti. Proviamo a immaginare la sua scrivania: un indescrivibile guazzabuglio di libri, fotocopie, appunti; penne, gomme, matite; foglie secche, biglie colorate, clessidre, agende, occhiali. Più altre varie ed eventuali: pupazzi, calamite, segnalibri, forbici e ritagli di giornale, e ovviamente una lampada e un computer. Per un grigio burocrate amante dell’ordine, un incubo. Può anche darsi che, rovistando in quell’oceano di carta e carabattole, si peschi il gagliardetto della squadra del cuore, e allora il nostro intellettuale, che per non farsi mancare niente è anche un appassionato di pallone, lo collegherà a tutti gli altri oggetti che affollano la scrivania, seguendo una trama intricata e labirintica che, come in un racconto di Borges, alla fine disegna il suo volto: il volto di Edmondo Berselli. Ed ecco allora che il calcio, oltre che passatempo e mania, può diventare un generatore di ricordi e divagazioni. E un libro sul calcio può rivelarsi una girandola di storie, personaggi e riflessioni che toccano la politica, la storia, la musica, la letteratura e, naturalmente, gli eroi del pallone. Un libro scritto senza alcun metodo, saltando orgogliosamente di palo in frasca, senza controlli e senza verifiche, lasciando in evidenza errori e imprecisioni, un libro scritto a memoria in cui si sostiene che è proprio la memoria l’unica cosa che conti nella vita. Tutto questo in barba alla meticolosità, all’attenzione e alla cura con cui gli adulti coscienziosi ci raccomandano sin da quando siamo bambini di studiare, lavorare e vivere. Un libro scritto per dispetto, che non a caso si intitola “Il più mancino dei tiri”. Il riferimento è alla punizione a foglia morta, portata alla perfezione tecnica ed estetica da Mario Corso, ala dell’Inter degli anni ’60: la palla, colpita delicatamente, quasi con gentilezza, dopo aver superato la barriera, a un certo punto cambia beffardamente traiettoria (come canta Battisti: “poi d’improvviso lei sorrise…”) e infine si deposita dolcemente in porta, spiovendo, appunto, come una foglia morta. Il portiere, che non ci ha capito nulla, assiste stupefatto e impotente allo spettacolo. Saper cambiare direzione quando nessuno se lo aspetta è del resto la caratteristica che distingue l’artista di genio dal bravo artigiano, il divagatore imprevedibile dallo scrupoloso impiegato, Lawrence Sterne, che nel “Tristram Shandy” si muove da una digressione all’altra con l’obiettivo di non arrivare mai al dunque, dal produttore seriale di romanzi da ombrellone. Ed è la caratteristica del primo violino che suona una melodia tutta sua mentre l’orchestra segue disciplinatamente lo spartito: per Berselli non deve trattarsi necessariamente di un fuoriclasse. Il lampo di luce che mostra da un’ottica inattesa, nuova, originale una quotidianità sempre più codificata, controllata e omologata, può venire anche da Comunardo Niccolai, stopper del Cagliari dal ’64 al ‘76, il più testardo e irredimibile realizzatore di autoreti che abbia calcato gli stadi nel Novecento. I suoi autogol, spiega Berselli, non sono errori, ma “fenomeni o processi spettacolari, complessi, acrobatici, altamente ritualizzati, perseguiti con una specie di inconsapevole ma integralistica ostinazione, che esaltano l’immaginario collettivo e si proiettano in leggenda”. Leggenda e ricordo collettivo che hanno bisogno dei Corso e dei Niccolai, delle ugole d’oro e degli stonati, perché altrimenti moriremmo di noia, e soprattutto si estinguerebbe qualcosa della nostra esperienza, “perché il calcio”, conclude Berselli, “è un frammento di vita, una insostituibile figurina Panini nel grande album dell’universo”.

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