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Giovanni Arpino, un Philip Marlowe tra gli inviati speciali

di Valerio Rosa

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  • 17.12.2022
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“Il gioco di palla, la sferomachìa, è sempre stato poetico: un atto puro, che attraverso decine di machiavellismi conserva dal principio un che di casuale, di fatale, e proprio per la sua imponderabilità fa ridere, fa piangere, sia chi guarda sia chi officia. I giocatori che fanno mucchio e si abbracciano e si rotolano per le terre dopo un gol (latini e anglosassoni, non esiste differenza) e i vinti che disperano, anche in questo obbediscono al rito, che vuole la vittoria, e cioè il Bene, subito plausibile, comunicato a tutti”. Fin qui Giovanni Arpino è uno spettatore appassionato, partecipe, per nulla sfiorato dallo snobismo intellettuale che considera il calcio un tema futile, che svilisce e ghettizza quanti provino ad occuparsene.

Ma quando, da scrittore prestato al giornalismo sportivo, comincia a frequentare assiduamente gli stadi, battendo sulla macchina da scrivere cronache, pagelle, commenti e articoli di colore, e si confronta con l’umano, troppo umano mondo dei giocatori, dei dirigenti e dei giornalisti, la liturgia perde la sua aura sacrale ed eroica, trasformandosi via via in una sarabanda delirante e cialtrona. Regressione che Arpino registra con amarezza, disillusione, cinismo, senza rinunciare però a metterla su carta, perché, come gli ricorda in una lettera il suo amico Osvaldo Soriano, uno scrittore si salva solo scrivendo. Nasce così “Azzurro tenebra”, il romanzo dell’ingloriosa spedizione italiana ai mondiali del 1974, disputati nell’allora Germania Ovest, romanzo di dialoghi, atmosfere, attese, solitudini, con lo stesso Arpino, personaggio principale, ad aggirarsi tra stadi, ritiri e alberghi con un’aria sarcastica e blasé alla Philip Marlowe, a prendere nota delle cicatrici da cui nascono i ricordi, lasciandosi contagiare da un sentimento di disfatta imminente, che avvolge e ingrigisce uomini e cose come il clima uggioso e deprimente che lo accoglie in Germania. E che lo porta a solidarizzare, ma non troppo, con i colleghi giornalisti, gli inviati speciali, “i più scemi tra gli animali”, bambini mai cresciuti, maschere da commedia dell’arte che si agitano rassegnate, unica arma la guasconeria, tra estenuanti trasferimenti in pullman, pasti consumati alla bell’e meglio, articoli scritti in fretta, simboli di una vita che appare rabberciata, raffazzonata, vissuta come un’inerzia aperta su altre inerzie, in balìa di un destino indifferente. “Tutti erano qualcuno”, li dipinge quasi affettuosamente Arpino, “con una goccia di fosforo disperato che gli bruciava dentro, con egoismi e generosità e astuzie e inganni, con cinico sguardo e improvvisa fede. Da anni battevano insieme i cantoni dell’universo inseguendo le parabole di un pallone, da anni assalivano i centralini degli alberghi facendo strame di direttori, impiegate, linee ingolfate”. Una routine che ad Arpino è venuta a noia: “La gente”, si lamenta, “neanche immagina cosa sia questo mestiere. Parole, fumo, chilometri di domande che si ripetono da cento anni, chilometri di risposte raccolte tra virgolette. L’ultimo ruttino dell’ultima scarpaccia in azzurro: tutti a registrarlo quasi fosse il gemito del papa morente”. E cosa ne viene fuori? “Il solito paraponzi da prima pagina. Tre battute ironiche per gli intenditori, due capoversi per il tifoso baluba, l’eterno dubbio tecnico cotto nel rosmarino del centrocampo. Servire bollente e gratinato in una colonna e mezza di piombo”. Un lavoro degno di uno scribacchino, di un imbrattacarte, di un mangiapane a tradimento a mezzo stampa, come si autoflagellerà Oreste Del Buono ai mondiali dell’82. Mugugni a cui Gianni Brera risponde che è meglio tenersi stretto il pallone, perché ai cosiddetti grandi inviati, che seguono le guerre e i processi, toccano sifilide, alcolismo, solitudine. Ma anche nell’oceano di parole, in cui si sforza di imbrigliare un mondo troppo liquido per stringerlo tra le mani, Arpino si sente solo. Solo ed estraneo. Finché non deciderà di mollare la presa, di non scrivere più di calcio, di non seguire neanche le partite alla tv, di non rivolgere più agli sportivi un fraterno “tu”, ma un vecchio e più pulito “lei”.

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