Oggi, la storia

Nel fondo del sacco

di Alessandro Stroppa

  • 15.04.2016, 14:20
Dea della giustizia romana

La dea della giustizia romana, Iustitita

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Oggi, la storia
Venerdì 15 aprile 2016 - 07:05

Un recente episodio di parricidio avvenuto il 31 marzo a Salerno ha portato alla ribalta delle cronache il tema dell’omicidio commesso ai danni di un parente stretto (sia esso l’uccisione del padre – come suggerisce la parola stessa – o di un parente stretto, fatto che contempla la fattispecie dei reati di matricidio, fratricidio o uxoricidio): tutti reati in qualche modo aggravati dalla circostanza per cui la vittima ha un vincolo di sangue diretto con l’uccisore.

L’efferatezza di tale tipologia di crimine – molti ricorderanno un caso del 1991, quello di Pietro Maso – nel diritto romano antico era sanzionato da una pena particolarmente feroce e spettacolare: la poena cullei, la “pena del sacco”. Subito dopo la condanna, il parricida veniva tradotto in carcere con ai piedi delle soleae ligneae (“zoccoli di legno”) e un cappuccio di pelle di lupo sul capo. Fustigato a dovere con delle virgae sanguineae (“verghe colore del sangue”), il reo veniva cucito in un sacco di cuoio impermeabile (il culleus) insieme ad un cane, un gallo, una vipera e una scimmia, e, dopo essere stato condotto per la città su un carro trainato da un bue nero, veniva gettato nel Tevere.

Il rituale – tremendo nella sua dimensione per così dire “pedagogica” – aveva una funzione simbolica, che alludeva alla gravità del reato commesso attraverso dei sottesi oggi non del tutto comprensibili: da un lato il gallo in lotta con la vipera si richiamava alla lotta viscerale che rompeva le regole del vivere civile infrante dal parricida; dall’altro il cane, animale per noi paradigma della fedeltà, era per gli antichi un animale inferiore, opportunista e impuro, che quindi demandava alla sfrontatezza del parricida; infine la scimmia, orrenda in quanto caricatura dell’uomo, era sinistramente nota – testimone di tale sapere sarebbe Plinio il Vecchio – per il suo eccessivo amore per i piccoli, che la portava a talvolta a soffocarli con i propri abbracci. La poena cullei, la cui simbologia trova anche altre interpretazioni, veniva applicata more maiorum, secondo, cioè, un’usanza arcaica, che nei secoli cadde poi in disuso.

Sdegnato di fronte alla ferocia di tale pena, ancorché distratto dalla sua tetra spettacolarità, l’uomo contemporaneo è chiamato però a plaudire non tanto alla soppressione del rituale, quanto all’eliminazione della pena cui esso adempie, che è la pena di morte. Non serve scomodare Cesare Beccaria per concludere che a rimanere nel culleus, oggi, sono quelle “civiltà” che ancora prevedono l’omicidio degli individui per mano dello stato.

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