Oggi, la storia

Non vitae, sed scholae discimus

Rete Due, venerdì 26 settembre, 07:05

  • 26.09.2014, 09:05
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Puerta de Almodóvar, Lucio Anneo Seneca, Cordova

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02:30

Oggi la storia 26.09.14

Oggi, la storia 26.09.2014, 07:05

A molti sarà capito di sentire una celebre sentenza attribuita a Seneca che recita così: non scholae, sed vitae discimus, «non impariamo per la scuola, ma per la vita». Questo aforisma viene spesso citato per affermare il principio secondo cui l’apprendimento – quello scolastico in particolare – dovrebbe essere finalizzato all’ars vivendi, all’arte del vivere, e non piuttosto ad uno studio sterile che si esaurisca nell’ambito del nozionismo fine a se stesso.

È un principio che agita un dibattito annoso in seno alla pedagogia di sempre, nel quale è invischiata anche la scuola ticinese, più che mai protesa a definire, sulla scorta del progetto HarmoS, le competenze che la scuola dovrebbe fornire agli allievi che la frequentano. Ma la frase di Seneca, ad essere precisi, afferma il contrario: non vitae, sed scholae discimus, «non impariamo per la vita, ma per la scuola», e non si presenta come una sentenza di carattere imperativo, ma come la constatazione di un dato di fatto. Così afferma il filosofo nell’Epistola 106: «L’ingegnosità si consuma in questioni superflue e che non rendono virtuosi, ma eruditi. La saggezza è più accessibile, anzi, più semplice: per avere una mente disposta al bene non occorre molta dottrina. Noi, invece, come sperperiamo tutto il resto per fini inutili, così ci comportiamo con la filosofia. Soffriamo per i nostri eccessi letterari come in ogni altro campo: non per la vita impariamo, ma per la scuola». Come a dire: l’essere umano, che per lo più si agita e si affanna in occupazioni inutili, riesce a rendere sterile anche lo studio, la cui unica utilità dovrebbe essere quella di contribuire alla ricerca della saggezza e della felicità.

In questa prospettiva appare chiaro che l’auctoritas Seneca venga scomodata non del tutto a proposito, dal momento che il contesto della sua speculazione riguarda la iactura temporis (lo spreco del tempo), e non, invece, la finalità e l’utilità dello studio. Bisognerebbe piuttosto precisare che il filosofo si situa ben oltre il dibattito contemporaneo: si impara non per la scuola, e nemmeno per la vita, ma per se stessi, per la crescita di quella che egli amava definire l’«interiorità». Presosi cura dell’anima attraverso lo studio, il saggio è pronto per la vita, con o senza scuola. Solo in questo senso, forse, si può azzardare che compito della scuola debba essere quello di insegnare a vivere.
Alessandro Stroppa

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