Nei conflitti interiori e in quelli planetari, nelle carriere e nelle Olimpiadi, nel divertimento e nella vita siamo portati a riconoscere vincitori e sconfitti. O, come si dice oggi, vincenti e perdenti. Ma l’agonismo non era per gioco, e l’importante partecipare?
E che ruolo ha la competizione in una società che vede l’essere vincenti come un imperativo?
Una super autorità in materia, Stefano Bartezzaghi, riflette sulla questione nello studio uscito in queste settimane da Bompiani. È Chi vince non sa cosa si perde, in cui esplora le dinamiche e i comportamenti competitivi nel gioco e nello sport, espandendo lo sguardo all’economia, alle relazioni internazionali e ai diversi ambiti della società e dell’agire umano. E analizza i cambiamenti dell’agonismo dall’antichità a oggi evidenziando legami pericolosi tra gara e guerra nel desiderio di vincere e di prevalere sull’altro. Ma esiste (per fortuna!) anche un agonismo positivo, in grado di stimolarci a migliorare le nostre competenze e prestazioni, e si può anche “lottare anche con bontà - ricorda Bartezzaghi - lottare per gioco, lottare anche per manifestare, sia pur velatamente, amore”!
Ne parliamo con la psicologa e psicoterapeuta Angela Andolfo Filippini, e con l’autore del libro, il semiologo, enigmista e saggista Stefano Bartezzaghi, docente all’Università IULM di Milano.
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